domenica 22 aprile 2012

I benandanti di Ruzante

Leonardo da Vinci, Benandante
I Benandanti erano una specie di stregoni benigni che "alle tempora" si scontravano con i loro nemici giurati: gli stregoni malvagi devoti a Satana. A seconda della fazione vincente il raccolto sarebbe stato abbondante o scarso.
Questo è in due parole la rozza descrizione di un fenomeno molto più complesso e pieno di simbologie, prevalentemente riferite a "oscuri" riti agrari, molto prossimi a quelli pagani. Nelle campagne, i cosiddetti "pagus" (da cui il termine pagano), questi riti erano rimasti a testimonianza di una religione quasi animista, più che pagana, ancora presente nelle campagne e motivo di roghi, specialmente di streghe, durante il periodo dell'Inquisizione. Probabilmente la cristianizzazione del rito della battaglia per il raccolto dei benandanti è avvenuta in seguito ed è una contaminazione di un rito più antico

"Quando il racolto vien buono, cioè della robba purasai, et bella, quell'anno è che li benandanti habbiam vinto; ma quando li strigoni vincono, il raccolto va male"
(Testimonianza di un benandante all'Inquisizione)

Il volume di Carlo Ginzburg "I benandanti" spiega con abbondanza di particolari  questa usanza affidandosi alle carte di quel processo dell'Inquisizione, del '600, dove vengono, forse per la prima volta, ascoltati alcuni abitanti delle campagne friulane dediti a questo rito periodico: i benandanti appunto.
Naturalmente la Chiesa Cattolica, attraverso la "longa manus" degli inquisitori, non può tollerare un rito che più che cristiano pare il paravento cristianizzato di un vero e proprio sabba. Ed è questo che cercano di far confessare, anche attraverso la tortura, ai cosiddetti benandanti. Il processo non dà i risultati previsti e, probabilmente anche dopo la condanna "teologica" del fenomeno e degli inquisiti, questo rito è difficile sia totalmente scomparso.
Pieter Bruegel, Combattimento tra Carnevale e Quaresima

Una delle caratteristiche del benandante è la sua arma inconsueta: un ramo di finocchio. Mentre lo stregone suo nemico impugna una canna di sorgo.
Qualunque antropologo potrebbe spiegarci chiaramente che non abbiamo a che fare con vere e proprie armi, ma con delle "armi magiche", così come lo scontro tra le due fazioni: bene contro male, proviene o è alla base di quelle rituali battaglie che avvenivano ad esempio alla fine del carnevale, la cui morte viene decretata dall'arrivo della quaresima.
Anche questo è stato un rito molto diffuso, la tela mirabolante di Pieter Bruegel ne è la testimonianza migliore. Anche le armi con le quali si confrontano i due personaggi sono armi "simboliche" più che armi vere e proprie. Uno spiedo per Carnevale e una pala da fornaio per la Quaresima.
Ma questa battaglia, con un destino già segnato (ma non sempre), era invece tollerata dalla Chiesa.
Così come la stessa chiesa tollerava, ed anzi vi partecipava in prima persona, a quel rito analogo che ancora oggi si celebra a Firenze, cioè lo "Scoppio del carro".
Anche questo rito "paganeggiante" dava, a seconda di quanti piani del "Brindellone", il nome che i fiorentini usano per indicare il carro, scoppiano. Se sono pochi il raccolto non sarà granché, se scoppia tutto il carro ci sarà abbondanza.
Il feneculum vulgaris (Antico erbario)

Ma torniamo alle armi magiche delle due fazioni in lotta nel rito delle "tempora" friulano. E soffermiamoci in particolare sull'arma del benandante: il finocchio.
Il finocchio è una pianta officinale, per questo motivo forse viene considerata un ausilio per l'uomo contro il male.
Fra i vari usi viene consigliato, sin dal tempo dei greci, contro i morsi dei serpenti e gli scorpioni.
Con questa funzione medicinale lo si ritrova in Dioscoride: "De materia medica" (I secolo d.C.). Ma colui che canta le lodi e le doti farmacologiche del finocchio è Plinio il Vecchio nella sua "Historia naturalis", sempre nel primo secolo:

"Da quello coltivato [il finocchio] si ricavano medicine contro il morso degli scorpioni e dei serpenti, bevendone il seme nel vino"
(Historia naturalis, XX, 96)

Quindi il finocchio è una pianta benefica, anche se non è detto che questa sia la sua reale funzione nella battaglia fra i due principi antitetici rappresentati dalle due fazioni in lotta per il buon esito del raccolto.
Ma lo stesso finocchio veniva usato nei roghi delle streghe, dove ne era gettato in abbondanza. La storia ci tramanda che fosse usato per attenuare l'odore della carne bruciata, ma al di là di questa spiegazione razionale, a mio avviso anche in questo caso la simbologia di esorcizzazione del male non è peregrina.
Angelo Beolco, drammaturgo cinquecentesco presso la corte padovana di Alvise Cornaro, scrisse una quantità di commedie cosiddette "alla villanesca"  cioè che mettevano in scena le avventure, tragicomiche di un contadino chiamato: Ruzante.
Palcoscenico della "Betìa" (dal manoscritto di Ruzante)

In seguito anche lo stesso Beolco prese il nome dal suo personaggio e fu chiamato Ruzante (o Ruzzante).
Nelle sue commedie spesso i contadini padovani si richiamano alle mitologie agrarie, in una di queste intitolata "La Betìa", Nale (il Ruzante della situazione) perpetra una beffa alla moglie che lo crede morto nella quale fa finta di essere tornato da lei sotto forma di spirito.
Tamìa, la moglie, è curiosa di sapere com'è fatto l'aldilà e chiede a quello che crede lo spirito di Nale delucidazioni.
E qui inizia una vera e propria favola, Nale lascia andare la sua fantasia e l'inferno è descritto come nelle più sanguinose raffigurazioni in affresco o mosaico del Medioevo.
Ma la base del racconto di Ruzante deriva dalla fiaba popolare, quella che Vladimir Propp ha delineato così bene nei suo saggi: "La morfologia della fiaba" e il successivo "Radici storiche dei racconti di fate".
Il racconto di Nale inizia come una classica fiaba, per arrivare nell'aldilà, secondo Ruzante, occorrono

"Trenta megiara de megiara de mì (trenta migliaia di migliaia di miglia)"

Propp invece ci ricorda come decine e decine di fiabe iniziano con: "in un paese lontano lontano" (o anche in un regno o in una terra) la cui lontananza non è misurabile.
Ma anche altre fonti letterarie, oltre il Ruzante, usano questa formula fiabesca, ad esempio Giovanni Boccaccio nel "Decameron". Nella terza novella dell'ottava giornata Calandrino diventa protagonista della beffa perpetrata ai suoi danni nel racconto dell' "Elitropia", la pietra nera dalle magiche virtù che si trova nella contrada di Bengodi nel paese dei Baschi.
Alla domanda di Calandrino: "e quante miglia ci ha?", Maso del Saggio risponde come nelle fiabe popolari:

"Haccene più di millanta, che tutta notte canta"
(Dec., VIII, 3).
Dante, Divina Commedia - La selva oscura
(ms. British Library 1340 circa)

Ovviamente anche in Propp l'eroe della fiaba finisce nell'aldilà passando attraverso varie prove, con aiutanti e armi magiche. Come nei benandanti le fronde di finocchio servono per combattere il male, così l'eroe delle fiabe sconfigge, con l'aiuto di "un mezzo magico", draghi e nemici di ogni genere, ma soltanto dopo aver attraversato il confine tra la vita e la morte.
E come per un eroe della fiaba, anche l'arrivo di Nale nel paese "lontano lontano" è stato velocissimo. Narra infatti di esserci arrivato "in t'un bater d'ogio".
Ma questa velocità non è benefica per il personaggio di Ruzante. Infatti si lamenta che nella rapidità con la quale si arriva all'inferno:

"Una festuga de fenogio portare no se pò, se no el so fiò, che è l'anema che no muore"
(Ruzante, Betia, V, 689-92)

Ed è qui che la cosa si fa interessante, perché l'anima di Nale, tanta è la velocità del passaggio tra il nostro mondo di mortali e l'altro mondo che non riesce neanche a strappare un ramo di finocchio.
Forse per mantenere il suo rapporto con il mondo reale, colui che arriva nel mondo dei morti, ha una connessione particolare con il mondo vegetale. Chi non ricorda la "selva oscura" di Dante?
Ma già in precedenza, eroi greci e romani dei poemi epici, avevano avuto la medesima esperienza, a partire dai due più famosi come Enea e Ulisse.
Quindi il passaggio tra il mondo dei vivi e quello dei morti avviene attraverso un bosco.
Pollicino dei Grimm lo attraversa per andare nella casa dell'Orco, Enea per entrare nell'Averno, e per Ulisse nell'Ade.
Bisogna anche notare che la parola "orco" non è soltanto riferibile al mostro che incontra Pollicino, ma anche altri protagonisti delle fiabe popolari, ma spesso era usato come sinonimo dell'inferno o semplicemente aldilà.
Anche i protagonisti greco-romani della discesa agli Inferi passano questa selva oscura.

"...dov'è una bassa spiaggia e boschi sacri a Persefone [la moglie di Plutone dio dell'oltretomba]
alti pioppi e salici dai frutti che non maturano,
[...]
e scendi nelle case putrescenti dell'Ade"
(Odissea, X, 510-516)
Francesco Corneliani, Enea condotto dalla Sibilla


Ovidio invece descrive
"...una via che in declivio si perde fra il fosco di tassi funerei; attraverso muti silenzi conduce agli inferi"
(Metamorfosi, IV, 431)


Ma ciò che accomuna Ruzante a Virgilio è la condizione "sine qua non" il viaggio agli inferi non è permesso.
In ambedue i casi è presente un ramo.
Anzi il "Ramo d'oro" usato da Frezier come titolo del suo saggio più importante. Scritto a fine '800 ma ancora basilare per lo studio dell'etnologia..
Sia Ruzante con il ramo di finocchio che Virgilio per il ramo d'oro si devono procurare un simbolo, Propp lo definirebbe: un aiutante magico, per non trovarsi in completa difficoltà di fronte all'oscuro mondo dell'aldilà.
Ma cos'è il ramo d'oro dell'Eneide?
Probabilmente il vischio come accenna lo stesso testo:
Loki uccide Balder con un ramo di vischio
(Manoscritto vichingo dell'Edda di Snorri)

"Come il vischio, che si riproduce su un albero suole nel freddo invernale, verdeggiare di fronda novella nei boschi e avvolgere i tronchi rotondi con gialli aurei frutti, tale era l'aspetto dell'oro frondoso sull'elce ombroso"
(Eneide, VI, 6)

Ma quel "come" ci mette in allarme visto che, ad occhio e croce siamo di fronte ad una similitudine. Dunque il vischio non è il ramo d'oro.
Dalla mitologia Scandinava possiamo fare un confronto con la storia del perfido Loki che uccide, anzi fa uccidere da un dio cieco il guardiano del Wallhalla: l'amatissimo Baldr (o Baldur o Balder nella versione tedesca della stessa mitologia), appunto con un ramo di vischio.
La somiglianza fra l' "Eneide" e l' "Edda di Snorri" da cui è tratta la storia è abbastanza inspiegabile, vista la lontananza, anche geografica, di queste due antiche religioni.
Però va tenuto conto che anche oggi questa piccola pianta è portatrice di un simbolo di fortuna e lungo amore. Quindi una pianta legata ad un potere "magico" che ancora oggi gli attribuiamo.

La grossa differenza fra il destino di Nale di Ruzante e quello di Enea è che l'eroe troiano riesce a trovare il talismano per poter entrare ed uscire dall'Ade, mentre nella favola inventata da Nale per prendersi gioco della moglie, lui non riesce a prendere l'arma magica dei benandanti ed è costretto a rimanere confinato fra i tormenti dell'inferno cristiano.
Tutto ciò ci fa sospettare che Ruzante avesse ben presente i riti dei benandanti e le loro battaglie propiziatorie.D'altronde sappiamo bene che Ruzante, nella sua veste di amministratore delle proprietà padovane della famiglia Cornaro, aveva raccolto il materiale servito per le sue commedie, direttamente dalla viva voce dei villani del XVI secolo.
In fondo Ruzante fu un precursore degli studi degli etnologi e antropologi del nostro tempo.



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