martedì 24 gennaio 2012

Città ideali e architetture selvagge nell'arte

Leonardo da Vinci, città su due livelli
La città ideale è sempre stato il mito della pittura rinascimentale, in particolare per gli architetti, ma anche i pittori si sono rivelati non indifferenti alla costruzione teorica, in forma di dipinto prospettico di una città "ideale".
Quello che non è stato messo in conto, alla fine del Rinascimento, è stata la destrutturazione fantastica del mito della città ideale, dal Barocco in poi, trasformandola in un coacervo di architetture, talvolta "ideali", più spesso architetture reali completamente decontestualizzate come quelle dei capricci romani di Panini o di Piranesi.

Ma torniamo alla nostra città ideale. Tra tutti coloro che progettarono città ideali forse soltanto Bernardo Rossellino riuscì a creare un microcosmo, un abbozzo di città ideale per conto di papa Pio II. Per questo motivo prese il nome di Pienza.
Il papa, al secolo Enea Silvio Piccolomini, già era conosciuto come grande umanista e aveva commentato lui stesso il "Libro della Poetica" di Aristotele. Da questo probabilmente prese spunto per un grande palcoscenico che è la piazza della sua città.
Bernardo Rossellino, piazza centrale di Pienza

Ancora su carta invece la città su due livelli di Leonardo, che aggiunge lo spunto ingegneristico geniale dei due livelli. In questo disegno non è difficile immaginare il portico del piano inferiore come una scenografia di un antico teatro greco-romano. Questo prevedeva anche un palco superiore, quindi era su due livelli come nel disegno leonardesco, come si vede da questa immagine della scenografia miracolosamente integra, o quasi, del teatro romano di Merida.


Teatro Romano, Merida, Spagna
Questo fu il Rinascimento, il quale arrivò al suo massimo nella tela di area pierfrancescana di Boston. Durante il Barocco questa costruzione prese, in pittura una piega diversa. Dopo gli oscuri sfondi caravaggeschi, la pittura vedutista aprì delle nuove strade. Iniziando dalla realtà, riprodussero pedissequamente le vedute ora di Venezia, ora di Roma, altre volte, come nel caso del Bellotto, vedute di Dresda.

Il Rinascimento lasciò dei palcoscenici inarrivabili, il Barocco cominciò a distruggere l'ideale della città. Dai porti fantastici di Poussin, fino alle città surreali di Monsù Desiderio. Senza contare che fin dal '400 i fiamminghi avevano già maltrattato la visione della città, asservendola alla descrizione di proverbi o giochi dei bambini, e la vitruviana "Torre di Babele", tutti e tre di Bruegel il vecchio.


Pieter Bruegel, La Torre di Babele
Ciò non toglie che le vedute reali, altre ideali come quelle di Gerusalemme, per i nostri pittori generalmente sconosciuta, avrebbero continuato ad esistere da Carpaccio, con le sue vedute di una Venezia ideale, come quelle dei teleri di "Sant'Orsola", a quella reale di Piazza San Marco sullo sfondo del Leone di San Marco.

Il Barocco prese le città e le costruì come delle vere e proprie realtà urbanistiche irreali, adattate ai motivi che erano rappresentati.

Questo raggiunse i suoi vertici con le architetture impossibili di Monsù Desiderio, ma già il Visentini creò inesistenti capricci architettonici ispirati a luoghi della fantasia.
Fra coloro che usarono questo metodo iconografico, il Panini, Marco Ricci, lo stesso Canaletto, anche se tutti e tre sono molto più famosi come pittori di vedute reali.
Antonio Visentini, Capriccio architettonico

Ma adesso tiriamo fuori l'asso dalla manica, il fantasma che aleggia dall'inizio: Monsù Desiderio. Monsù è la traduzione approssimativa del Monsieur francese, infatti il Desiderio era di origine francese la sua opera è stata variamente attribuita tra i due francesi François de Nomé e Didier Barra, pittori di Metz, ma d'impronta italiana, a cui aggiungono un certo sentire nordico che illumina la scena di un chiarore che ricorda la Metafisica, oltre che il Surrealismo, com'è stato considerato in un saggio recente: un anticipatore del movimento artistico di André Breton.

Monsù Desiderio, Capriccio architettonico
Dal palcoscenico umanistico del disegno di Leonardo, questo capriccio sembra quasi un palco di una Sacra Rappresentazione con le edicole messe affiancate come nella tradizione del teatro dei Misteri medievale, come si può notare confrontandola con il palcoscenico della più famosa sacra rappresentazione del medioevo: "La Passione di Valenciennes". Le edicole affiancate ricordano molto, al di là dello stile, il capriccio di Monsù Desiderio.

Le edicole del quadro del francese si dividono in stile gotico e altre in stile romaneggiante. L'anfiteatro sullo sfondo, una citazione del Colosseo,  non può non ricordare i capricci del Panini, anche se la distorsione architettonica in questa tela di Monsù Desiderio crea una strada o piazza o una serie di monumenti affiancati lontani dalla pittura del suo tempo, superando gli stessi modelli dei capricci italiani.
Palcoscenico della Passione di Valenciennes (XIII sec.)

Ma un paesaggio fantastico legato ancora ai modi rinascimentali si ritrova, e questo ci stupisce, nelle tele di quel grande vedutista, o ruinista, o pittore di capricci con piccole figure, come dir si voglia, che si chiama Viviano Codazzi.

Questo capriccio architettonico è di una teatralità che difficilmente si ritrova in un altro pittore della sua generazione. Il punto di fuga inquadrato al centro della "Ianua magna", cioè l'arco centrale, ci riporta addirittura al palcoscenico di Francesco del Cossa negli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara.

Viviano Codazzi, Capriccio architettonico
Chi non nota in questa tela la riproduzione della scenografia del teatro romano di Merida?
Eppure la ricerca che esisteva nel periodo rinascimentale in un avvicinamento, quasi sacralizzato, ai modelli dell'antichità, come nelle tre tele prospettiche famose attribuite all'area di Piero della Francesca.

Non conosciamo una particolare vicinanza tra il Codazzi e i rinascimentali, era figlio spurio della Scuola dei Bamboccianti, anche se il suo vero maestro fu Micco Spadaro.

Le tele di Codazzi sembrano quasi una versione in forma architettonica e scenografica dei capricci di Salvator Rosa. Anche se sembrano paesaggi naturali, nelle sue tele il Rosa piega la natura, quasi costruisce i suoi paesaggi ad un suo ideale architettonico.
Francesco di Giorgio Martini (?) Città ideale


Un altro esempio tra la corrispondenza dei quadri prospettici rinascimentali della città ideale e i quadri del Codazzi sono visibili in questi due esempi.
Il primo il di questi è la cosiddetta città ideale del Museo di Berlino, attribuita, con molti dubbi a Francesco di Giorgio Martini.

Ma guardiamo anche questa tela,  attribuita a Viviano Codazzi ci sorprende, di nuovo una citazione del teatro umanistico, un'altra coincidenza?
Viviano Codazzi, Capriccio Architettonico

Ma se alcuni pittori si rifanno anche a vecchi modelli, magari con un retroterra più nobile, l'esempio di Monsù Desiderio si fa sentire forte, anche se legato ad una sensibilità propria, originale e irripetibile, ci sono alcuni pittori che riescono a creare ambienti sul suo stile, come il grande Alessandro Magnasco che italianizza i complessi scenografici di Monsù Desiderio.


Alessandro Magnasco, Baccanale

Su Magnasco il discorso sarebbe lungo, anche se molto interessante. Ma anche uno dei nostri più strani attori della pittura non raggiunge nemmeno lontanamente il delirio di Monsù Desiderio, pari forse a quello quattrocentesco di Hieronimus Bosch o a quello dei quadri di Max Ernst.
Anche se i paesaggi architettonici di Magnasco seguono la moda del ruinismo, l'opposto degli integri palcoscenici-città ideali di Monsù Desiderio.

Dar razionalismo prospettico dei rinascimentali alle architetture selvagge del barocco e il rococò, passando attraverso le visioni teatrali di Codazzi, la pittura italiana ha destrutturato l'ideale della "città ideale".

mercoledì 18 gennaio 2012

Le Sorelle povere - Monete di zinco olandesi

25 cents
Probabilmente perché sono sempre stato un amico degli sfortunati, essendolo io stesso, amo questo tipo di monete a loro modo le più sfigate e sulle quali qualunque collezionista investirebbe pochi euro.

Quando ero piccolo avevo un gatto, in campagna da mio zio, da me chiamato pomposamente Lafayette (ma non per il cane degli Aristogatti di Walt Disney) in onore del grande generale francese. Anche il mio Lafayette aveva combattuto, ma con un treno. Aveva perso una zampa davanti ed un occhio, ma era diventato il mio occhio destro.

Tutto ciò per dire che come numismatico ho scelto di collezionare le più povere, svalutate e sfigate monete della storia della numismatica: le monete di zinco.
Lo zinco era stato usato fin dai tempi dei romani per creare leghe per fare le monete, ma il momento in cui si è fatto più uso di questo metallo "povero" è stato durante il periodo delle 2 guerre mondiali. Si capisce abbastanza bene il perché, durante la guerra tutti gli altri metalli vengono usati per lo sforzo bellico, lo zinco rimane per battere moneta.

Una cosa che colpisce e che nessuno prende in considerazione è l'iconografia di queste monete, con simboli pieni di storia, di miti e di leggende. La Monetazione in zinco olandese del periodo della Seconda guerra mondiale è particolarmente bella. Forse la più bella, presa nel complesso fra le monetazioni in zinco in assoluto.

Questi 25 centesimi del 1943 lo dimostrano ampiamente. Nel corso di una discussione sul tema del significato di questa moneta sono uscite delle interpretazioni fantasiose. La nave vikinga in mezzo alla tempesta cosa significava? Forse le tribolazioni della guerra? Io non credo, da sempre le monete veicolano il nazionalismo, mai il pessimismo. Visto che nel '43 le monete emesse dalla zecca olandese erano sotto il diretto controllo delle autorità tedesche, il messaggio veicolato si riferiva sicuramente alle lunghe navi dei normanni e il loro ruolo di colonizzatori di mezza europa e padri del popolo olandese.

Questa iconografia ritornerà in tutta la serie centesimale olandese con una serie di variazioni sul tema molto interessanti, ma sempre ispirate a questa iconografia "nordica".

* 1 centesimo
L'iconografia di questa moneta è semplice nella  sua classica trasposizione della "croce celtica", molto amata dai popoli nord europei. Ma questa celtica olandese differisce nell'aggancio aperto delle quattro braccia come una cintura che si unisce ad altri cerchi.
Il cartiglio "Nederland" è in puro stile liberty, imperante ancora negli anni '40.

* 5 centesimi

La moneta da 5 cent è la più bella della serie, forse a causa della sua forma quadrata (anche se con gli angoli smussati) così estranea alle monetazioni europee. Nell'area quadrata ovviamente più piccola della normale area circolare delle altre monete accumula i simboli e apre alle interpretazioni più favolose.
Cosa sono quei due oggetti incrociati al centro? Io ho sempre pensato a un cavallo di frisia, visto che la Frisia si trova non casualmente in Olanda.
Aggiungi didascalia

Il sole, probabilmente un'alba, ricorda che sotto il cielo non c'è mai stato un impero così grande come sarà il millenario Reich tedesco.
Molto in questa moneta ricorda il liberty (il solito cartiglio) e le onde laterali che in quadrano la scena, ma si tratta di un liberty razionalista, vicino alla iconografia dell'arte nazista.

Ma se questa faccia dei 5 cent è interessante, la faccia col valore lo è altrettanto. Soprattutto dal punto di vista iconografico integra il discorso che stiamo facendo su queste sorelle povere delle precedenti in bronzo.
Di nuovo ricompaiono le onde, ovviamente l'Olanda, come paese contiguo al mare e sotto il livello dello stesso in molte parti del territorio non può ignorare la sua dipendenza dal mare. Le onde sono stilizzate, ed anche il valore al centro ha un'iconografia inusuale, iscritto com'è in una specie di cerchio puntato nelle estremità. Sulla destra un fascio di piante ci ricorda anche la propensione agricola del paese. Quello del fascio di piante è un'iconografia che si ripete in molte, se non tutte le monetazioni europee ed extraeuropee.

* 10 centesimi


I 10 centesimi ritornano circolari, ma anche qua gli olandesi ci sorprendo mischiando le varie simbologie già viste nelle precedenti monete, aggiungendo uno specifico olandese che ancora oggi li rende famosi nel mondo: il tulipano.

10 cent


Nel cerchio è inquadrata una pianta con tre bei tulipani, messi in forma di croce. Questo è tutto liberty, l'epica nordica qui lascia il posto al simbolo della nazione, che non è più il leone degli Orange, come al tempo della regina Guglielmina, in esilio in Inghilterra, ma quella pianta, che ancora oggi è simbolo e vanto dell'Olanda.

* 2, 1/2 centesimi


Quella che abbiamo volutamente lasciato per ultima è la moneta da 2 cents e 1/2 che vale la pena di essere esaminata in toto.
2 e 1/2 cent
Questa moneta è bellissima in ambedue le facce, la faccia col valore e la data hanno un fascino particolare che richiama nell'iconografia quelle da 1 e 5 cent. Il cartiglio con la data messo in obliquo le quattro onde e le piante. Ma lo spettacolo dell'altra faccia è notevole ed è il riassunto delle altre monete, nessuna esclusa.

Le due gambe del cavallo di frisia dei 5 cent, raggiungono il centro della croce celtica dell' 1 centesimo, ma lateralmente appaiono le prue di 2 navi vikinghe dei 25 cent, ma la punta di tutta la costruzione è dominata da un tulipano come nei 10 cent.

Certo non saranno monete particolarmente belle, non sono dobloni, ma hanno un loro fascino, hanno una base interpretativa interessante dato che è applicata ad un materiale povero e deteriorabile come lo zinco. Ma durante il secondo conflitto mondiale molti altri paesi adottarono lo zinco, dalla Serbia alla Francia, dagli USA al Giappone. Ma avremo modo di parlare anche di tutte le altre in seguito.

giovedì 12 gennaio 2012

Il mistero degli Arlecchini di Ferretti

Arlecchino cuoco
Giovanni Domenico Ferretti (Firenze 1692-1768), fu un pittore molto ricercato nel '700 in Toscana. Fu allievo di molti pittori famosi come Tommaso Redi e Sebastiano Galeotti fiorentini e il circolo bolognese di Giovan Gioseffo dal Sole, attraverso la frequentazione della bottega di Felice Torelli, oltre le classiche tele di stampo religioso e mitologico ci ha lasciato un ingente numero di tele sul tema della Commedia dell'Arte dedicate al personaggio di Arlecchino e i suoi "lazzi" e travestimenti.

Datati intorno al 1750 (E.A. Maser 1968) questo ciclo ci lascia perplessi per la sua originalità e il numero consistente di soggetti e varianti degli stessi. 
Durante il tempo queste tele sono state variamente interpretate e ci hanno comunque proposto molti dubbi, il primo dei quali è: perché e per chi sono state dipinte?

Il dubbio è proprio questo: perché un pittore "serio", un frescante di grande successo, stilisticamente alla pari con i grandi toscani della sua epoca come Vincenzo Meucci e il Soderini stesso, ha dipinto quadri così originali che, fino a qualche tempo fa, non erano nemmeno presi in considerazione dalla critica artistica?
Arlecchino gran signore

Una risposta certa non esiste, ma esistono comunque molte ipotesi che si sono accavallate dagli anni '50 (del Novecento) ad oggi. Probabilmente tutte valide e nessuna certa.

Colui che ne parlò per primo, e li pose all'evidenza del mondo storico-artistico, in tempi recenti,  fu il prof. Edward A. Maser, dell'Università di Chicago, nel 1956. A lui si debbono gli esami più importanti, almeno a livello stilistico e iconografico che culminarono nella prima monografia del pittore fiorentino (1968).

Anche Maser si pose la domanda: chi li aveva commissionati e perché? Maser dette un'incerta risposta attribuendoli ad una visita di Goldoni a Firenze nel periodo della loro composizione e la conoscenza che s'instaurò tra il commediografo veneziano e l'erudito Anton Francesco Gori per la comune frequentazione delle Accademie letterarie fiorentine del '700.

Anton Francesco Gori era una figura d'intellettuale molto stimato a Firenze nel XVIII secolo, ma era anche cugino del pittore. Di Gori si disse anche che fu il maggior etruscologo del suo tempo e che, addirittura, avesse scoperto il mistero della lingua etrusca e la traduzione della stessa. Naturalmente sappiamo che non arrivò a tanto e la lingua degli etruschi è per la maggiorparte ancora intraducibile.

Ma Maser portò anche un documento a sostegno della sua tesi: sia il Gori che il Ferretti partecipavano alla vita teatrale della città attraverso la frequentazione dell'Accademia del Vangelista, nota per le sue rappresentazioni teatrali (avevano un piccolo teatro nel convento dove si riunivano e facevano spettacoli di rappresentazioni sacre ma anche di Commedie Ridicolose). La "Ridicolosa" è un genere teatrale identico alla Commedia dell'Arte, soltanto che era recitato da nobili dilettanti.
Arlecchino pittore
Il documento che certifica la presenza di Ferretti al Vangelista è tratto dai "Diarii" di Giovan Battista Fagiuoli che lo cita almeno due volte come "Ferretti pictor" presente, insieme al cugino, alle rappresentazioni accademiche.

Il numero delle tele arlecchinesche dipinte dal Ferretti è ancora incerto, un articolo di Franco Morettini (DEA 2000) riporta tutti i soggetti dipinti sparsi per i vari musei italiani ed esteri. Ma seppure sappiamo i soggetti non conosciamo ancora il numero esatto dei quadri dipinti. Molte tele furono più volte ripetute, alle volte con gli stessi soggetti e gli stessi formati, come nel caso della collezione dei cosiddetti "Travestimenti di Arlecchino" (titolo attribuito dal Maser) che si trovano sia al Museo John & Mable Ringling di Sarasota (Florida) che nella Collezione della Cassa di Risparmio di Firenze. L'unica differenza è nel numero. A Sarasota compare un "Pulcinella con maccheroni" (sfuggito nel saggio di Maser), non presente a Firenze, e d'altro canto a Firenze tre soggetti non presenti a Sarasota: "La famiglia di Arlecchino", "Arlecchino gran signore" e "Arlecchino bacchettone" (che Maser riteneva perduto).

Ma adesso dobbiamo far entrare un altro attore nell'intricata storia degli arlecchini di Ferretti, anzi un attore e un regista.
Hermann Thimig, Arlecchino

Nei primi anni del secolo da poco passato sappiamo che i quadri di Ferretti, quelli poi finiti nel Museo di Sarasota, erano in possesso di un celebre regista teatrale, forse il più celebre del Novecento: Max Reinhardt.
Il padrone del sistema teatrale di Berlino fino agli anni '30, li conservava nella sua grande casa austriaca: il Castello di Leopoldskron a Salisburgo.
L'attore invece è  Hermann Thimig, cognato di Reinhardt,  attore che presentò sulle scene il suo Arlecchino nella trasposizione di Reinhardt del goldoniano "Il servitor di due padroni" nel 1924.

E' difficile pensare che Reinhardt non abbia tratto ispirazione dai quadri in suo possesso per i costumi della commedia settecentesca, infatti le foto di scena ci danno ragione, il costume di Arlecchino di Thimig è quasi identico a quello dell'Arlecchino ferrettiano.
Si potrà obbiettare che in fondo il costume di Arlecchino è stato sempre uguale nei secoli, ma non è vero, soprattutto se prendiamo come esempio tutte le rappresentazioni grafiche e pittoriche dal '500 al '700. L'Arlecchino di Tristano Martinelli di fine XVI secolo aveva un costume bianco con rade toppe colorate e cucite, quello dell'Arlecchino di Gillot (XVII sec.) era ancora largo e non aderente al corpo e quello di Watteau (XVIII sec.) con losanghe molto strette. Sono molto diversi dal tipo arlecchinesco di Ferretti.

Marco Marcola, Arlecchino e Colombina
Ma torniamo a Ferretti. Come abbiamo detto ci sono molte varianti degli arlecchini, ma non essendo il pittore fiorentino molto conosciuto fuori dalla Toscana e ingiustamente accantonato come minore dalla storiografia artistica. Per questo motivo spesso è stato confuso con altri pittori del suo secolo. Visto che il soggetto delle maschere era usato spesso di ambito veneto, fu spesso attribuito a pittori di quest'area.
Il caso più eclatante sono i quattro quadri arlecchineschi di Ferretti dei Musei Civici di Trieste: "Arlecchino servo furbo", "Arlecchino aggredito", "Arlecchino studioso" e "La famiglia di Arlecchino" che sono stati attribuiti da Giuseppe De Logu al veronese Marco Marcola (Verona 1740-1793).
Niente di più falso, i soggetti e l'iconografia riportano agli stessi identici quadri di Ferretti di Firenze e Sarasota, poi basta fare un confronto fra l'Arlecchino di Marcola e quello di Ferretti per avere la conferma.
Sono decisamente due mani diverse e incompatibili fra loro.
L'Arlecchino di Marcola è una marionetta al confronto con quello di Giovanni Domenico Ferretti. La differenza è palese.

Francesco Bartolozzi, Arlecchino bacchettone
Bisogna tenere conto che ultimamente, dopo la riscoperta degli arlecchini fiorentini, molti, forse troppi imitatori settecenteschi hanno inflazionato il tema ed improvvisamente sono stati riscoperti arlecchini ferrettiani di dubbia attribuzione. Forse questa proliferazione di imitatori dei soggetti di Ferretti son stati causati dall'esportazione in Veneto di quattro dei suoi soggetti incisi presso la bottega veneziana di Ioseph Wagner dal più noto allievo di Ferretti: Francesco Bartolozzi.

Le sue incisioni evidentemente fecero colpo sui veneti, da sempre legati ai soggetti della Commedia dell'Arte, un nome per tutti: Giandomenico Tiepolo.

Naturalmente non finisce qui l'analisi su  questi quadri. Siamo rimasti a chi li ha commissionati. Ovviamente né Goldoni e forse nemmeno l'Accademia del Vangelista per ornare la sala del suo teatrino (l'ultima ipotesi non è da scartare ma mancano conferme documentarie).

Recentemente (F. Sottili in "Paragone" 2008) un articolo ha proposto una novità: cioè che le Arlecchinate siano state dipinte per un unico committente: la famiglia Sansedoni di Siena. Ferretti aveva già affrescato, con temi mitologici, il palazzo di famiglia e Orazio e Giovanni Sansedoni pare fossero amanti del teatro. Ma per il momento lasciamo cadere questa interessante ipotesi. Presto ci dedicheremo a confrontare, in un altro articoletto le differenze e similitudini fra opere attribuite al Ferretti nei vari musei teatrali italiani.

domenica 8 gennaio 2012

Il Maestro di Tolentino in Romagna

Santa Chiara, Crocifissione
Gli affreschi del XIV secolo della chiesa di Santa Chiara a Ravenna ci pongono un quesito: chi ha dipinto questi affreschi, Pietro da Rimini o il Maestro di Tolentino?

Non è difficile vedere le similitudini fra gli affreschi ravennati e quelli del Cappellone di San Nicola del Maestro di Tolentino.

Basta un confronto ravvicinato fra i due cicli di affreschi. Purtroppo le poche immagini che si trovano in rete non ci offrono se non visioni parziali del ciclo d'affreschi che ornava la chiesa delle clarisse ravennati. Ma anche soltanto dalle poche immagini disponibili si può vedere un'indiscutibile somiglianza, sia a livello formale che iconografico.


Poi esaminando i particolari dei volti si capisce che si tratta della stessa bottega, una grande bottega, sicuramente la migliore dell'intera Scuola Giottesca Riminese, ma da sempre senza nome, anzi con più nomi, anche troppi. Maestro di Tolentino, il Maestro di Santa Chiara a cui dobbiamo aggiungere anche altri cicli romagnoli attribuiti a maestri anonimi.
La critica recente ha tolto le castagne dal fuoco attribuendo, ormai senza nessuna voce contraria, ambedue i cicli ad un pittore con nome e cognome: Pietro da Rimini.
Tolentino, Nozze di Cana

Perché Pietro da Rimini? Non abbiamo molte notizie di questo pittore, ha lasciato due opere autografe e tanti quadri attribuiti.
Questa tavoletta della Natività può essere presa come confronto fra Pietro da Rimini e gli altri maestri anonimi della Romagna e delle Marche.
Pietro da Rimini, Natività



E' difficile dire che sia la stessa mano, anche se c'è un'indiscutibile somiglianza fra le figure di Pietro e quelli del Maestro di Tolentino.
Ma fra i due il Maestro di Tolentino pare essere il maestro della bottega e Pietro soltanto un allievo.

Le figure morbide, ma al contempo potenti di quelle dell'affresco tolentinate sono tecnicamente fra le migliori del gotico marchigiano.
Nessuna opera di Pietro raggiunge la bellezza di questi Apostoli di Tolentino.

Ma se ci portiamo nella chiesa ravennate, troviamo un'aria molto simile a quella di Tolentino e lontana da quella di Pietro.
Ma più interessante è il confronto fra Tolentino e Ravenna.
Rimanendo in ambito ravennate gli affreschi di Santa Maria in Porto Fuori sono in credibilmente somiglianti agli altri dei due cicli .

Gli affreschi di Santa Maria in Porto Fuori


Maestro di Tolentino, Gesù nell'Orto
Forse è probabile che il Maestro di Tolentino sia stato chiamato a Ravenna, o anche il contrario, cioè che fosse un pittore di origine ravennate chiamato a lavorare a Tolentino. Dato che abbiamo a che fare con due anonimi, tre se contiamo anche quello di Santa Chiara, che hanno lavorato negli stessi anni e con influenze simili. Il Maestro di Tolentino non è soltanto un artigiano locale, ma azzardando un'attribuzione alla stessa mano dei due affreschi di Ravenna, un grande pittore, con una personalità propria. Se così fosse, e qui ci ripetiamo, niente di simile è mai stato prodotto, fra quadri di mano certa o attribuzioni, dagli altri pittori di Scuola Riminese.

Usiamo anche le foto in bianco e nero della Fondazione Zeri, per avere un parametro di confronto fa il Maestro di Santa Maria in Porto Fuori e gli altri. Perché, come si sa, da sempre il bianco e nero è usato dagli storici dell'arte per avere una visione più precisa delle immagini senza l'intervento del colore che talvolta inquina l'immagine e mette fuori strada.

Le Volte

Nelle Volte a crociera, abbiamo notato forti similitudini formali tra i tre cicli di affreschi.
Tolentino, San Giovanni e Sant'Agostino
Un indizio, ma non di poco conto, è la struttura dell'insieme, e altre similitudini che saltano all'occhio. In tutte e tre le Volte compaiono gli stessi "personaggi": un Evangelista, accompagna un Padre della Chiesa e gli suggerisce la composizione o l'interpretazione dei testi sacri. Sopra ogni coppia, inserito in un cerchio, il simbolo dell'Evangelista attore di ogni singola scena. Naturalmente l'iconografia è figlia della Volta giottesca di Assisi, anche se le differenze con questa sono molte.

Va fatta una piccola parentesi per far notare come i simboli degli Evangelisti sìano praticamente identici in tutte e tre le Volte affrescate.

San Giovanni e Sant'Agostino, chiesa di Santa Maria in Porto Fuori
Come si vede nel Cappellone di Tolentino, l'Evangelista (Giovanni in questo caso) non soltanto suggerisce ma il suo intervento sull'opera del Santo (nel caso specifico Agostino d'Ippona) è diretta, Giovanni allunga la mano per scrivere direttamente sul testo del santo, quindi non è un suggerimento ma un intervento diretto sul manoscritto agostiniano. E così succede anche per gli altri Evangelisti.
Mentre in quelli di Santa Maria si limitano al suggerimento.

Un'altra similitudine da tenere di conto è la struttura degli scranni dei Santi e gli Evangelisti. I cassetti aperti con i libri che escono, le cassapanche e le pedane decorate dei Padri della Chiesa sfuggono, forse per la struttura concava delle vele dipinte, alla tridimensionalità giottesca, mostrando un gusto per i particolari, quasi una firma del pittore, visto che ricorrono in tutti e tre i cicli pittorici.

I Volti dei personaggi


Chiesa di Santa Chiara, Volto della Madonna
Trovandoci nello stesso ambito, cioè quello riminese, i volti dei personaggi, soprattutto quelli minori, ricorrono simili in quasi tutti i pittori di questa scuola. Ma quelli dei tre maestri hanno uno somiglianza quasi impressionante:

I volti dei personaggi, e soprattutto le loro aureole raggiate e in rilievo non appaiono mai nell'opera conosciuta di Pietro da Rimini. Anche questa sembra una firma del pittore di Tolentino, che si ritrova anche di quelli di Ravenna, e non soltanto ma comparirà anche in altri cicli pittorici romagnoli, come vedremo in seguito.

Il volto della Madonna degli affreschi di Santa Chiara non ha niente a che invidiare a quelli del Maestro di Tolentino o quelli del Maestro di Santa Maria in Porto Fuori., come si può notare dagli esempi illustrati



Ma  meglio ancora è il confronto fra i volti degli angeli o quelli dei pastori della natività. Quelli dei Maestri marchigiani-ravennati ci ricordano tanto la Scuola giottesca Senese, Pietro Lorenzetti in particolare, ma anche qualcosa di Simone Martini. Da questa osservazione nasce un piccolo dubbio: e se il Maestro di Tolentino non fosse un giottesco riminese?
Lo stesso ovviamente si potrebbe dire per gli altri maestri finora esaminati.
Maestro di Tolentino, Angeli musicanti

I volti eterei, quasi androgini, ci trasportano nell'ambito del Martini avignonese, o quello di Matteo Giovannetti. Certo che la conoscenza del giottismo transalpino aprirebbe nuovi scenari, mai percorsi finora, anche se le probabilità sono pressoché minime, quasi nulle.

Matteo Giovannetti in fondo aveva frequentato, prima del cantiere di Avignone, gli appennini dell'Italia centrale. Non a caso era nato a Viterbo. Ma il confronto fra il pittore viterbese e i maestri romagnolo-marchigiani non è fattibile, la mano è decisamente diversa. Altro caso è Simone Martini, la sua "Madonna in Gloria" di San Gimignano, l'aureola e il volto ricordano molto i nostri Maestri, non mi sembra azzardato fare un confronto.

Simone Martini, Madonna in Gloria, San Gimignano


Potremmo ipotizzare un viaggio di Simone
attraverso le Marche e poi la Romagna?

La biografia del grande senese non ci riporta niente che confermi un eventuale viaggio di Simone in terra marchigiana o romagnola. Eccetto, forse, il suo passaggio ad Assisi per dare il suo contributo alla fabbrica della Chiesa di San Francesco, la vetrina della grande pittura due-trecentesca medievale italiana.
La possibilità è molto remota, anche se è un'ipotesi suggestiva. Da escludere anche un prodotto di bottega, o degli allievi senesi di Simone, nessuno di loro ha continuano la tradizione dei volti "francesizzanti" patrimonio unico di Simone Martini.

Stranamente questa iconografia ritorna nei volti dei nostri maestri, da quelli del Maestro di Santa Chiara, al volto degli angeli del Maestro di Tolentino.
Apostolo, San Pietro in sylvis
Un particolare da non sottovalutare. Ma i volti "alla Martini" si ritrovano in tutta la Scuola Riminese o soltanto nei nostri Maestri?
Adesso aggiungiamo un nuovo maestro, con la solita attribuzione al fantomatico Pietro da Rimini: il Maestro di San Pietro in Sylvis.

Anche per questo pittore i dubbi che si tratti del Maestro di Tolentino sono molti.
Bisogna chiarire che per comodità useremo il nome del Maestro di Tolentino per tutti i maestri perché il Cappellone di Tolentino è l'opera meglio conservata di questo pittore e la sua eventuale bottega.

Se continuiamo con il confronto fra le opere di Pietro da Rimini e quelle del Maestro di Tolentino nei vari affreschi presi in considerazione, è ovvia la grande differenza fra il maestro riminese e quello di Tolentino.
Quello di Tolentino fa vedere una padronanza, non presente in Pietro, della tridimensionalità e la potenza dell'inserimento dei personaggi nelle scenografie di mano giottesca, evidentemente il Maestro di Tolentino ha lavorato ad Assisi.

Magari come collaboratore, ma il Maestro ha conosciuto direttamente l'opera di Giotto, di Simone Martini, di Pietro Lorenzetti, e dove se non ad Assisi?
Pietro da Rimini, Stimmate di San Francesco

Pietro da Rimini, al contrario non sembra poter competere con il Maestro di Tolentino, quello di Santa Chiara, quello di Santa Maria di Porto Fuori e quello di San Pietro in Sylvis. I suoi cieli dorati, le scene che usano un paravento dorato per non mostrare il paesaggio come nella deposizione del Louvre.

La Deposizione è la tavola più celebrata dell'opera di Pietro. Soprattutto questo capolavoro della Scuola Giottesca Riminese dimostra come Pietro da Rimini e i maestri sopra citati hanno delle differenze non ignorabili. I Maestri che possono forse essere riassunti in un unico pittore geniale ha già respirato l'aria del giottismo di tutte le scuole: da quella romana, quella bolognese, quella fiorentina e particolarmente quella senese da cui ha mutuato l'iconografia senza dimenticare la lezione delle altre scuole,

Pietro da Rimini, Deposizione
Pietro da Rimini ci riporta invece ad atmosfere pregiottesche come quelle di Duccio da Boninsegna. La Deposizione ne è la prova certa, la tavola è moderna, ma mantiene una struttura duccesca, ed è così anche nei personaggi.

Non si può pensare qualcosa di più dissimile dai corpi tridimensionali del Maestro di Tolentino. Nelle Crocefissioni dei vari maestri e Pietro da Rimini vedremo le differenze e le, eventuali somiglianze.

Il Crocifisso di Urbania, unica tavola firmata dal maestro di Rimini, risulta già più moderno di quello della Deposizione.

Pietro da Rimini, Crocifissione



La testa del Cristo della Crocifissione di Pietro è un piccolo gioiello della scuola pittorica giottesca riminese, ma il volto del Cristo è confrontabile con quello del Maestro di Tolentino?

Vorrei anche azzardare l'ipotesi che il Cristo di Urbania e quello della Deposizione del Louvre non siano stati dipinti dalla stessa mano. Ma se il primo è autografo di Pietro da Rimini, la tavola del Louvre non è firmata.
Maestro Di Tolentino, Crocifissione


Il Cristo di Tolentino ha delle differenze notevoli, soprattutto nella drammaticità del volto anche se bisogna ammettere come in questo caso forse Pietro dimostra una certa plasticità non ancora presente nel Maestro di Tolentino.

Crocifissione, Santa Chiara

Non avendo un primo piano del volto non è molto facile fare un confronto con Tolentino, ma nella chiesa di Santa Chiara, c'è una bellissima Crocifissione che vale la pena di essere vista e confrontata con le prime due.


Decisamente siamo un passo avanti, un'evoluzione dello stile del pittore di Tolentino. L'aureola crociata, la torsione del corpo che produce un senso di movimento non presenti nelle opere certe di Pietro da Rimini, la ritroviamo invece a Tolentino nell'Ingresso a Gerusalemme e anche in molte anche rappresentazioni del Cristo.

Va detto che probabilmente il Cristo della Crocifissione di Tolentino è stato dipinto soltanto in un secondo tempo, rispetto a tutto il ciclo dell'affresco ed è per questo che c'è differenza tra il Cristo della fascia centrale e quello dell'altare.

Cesare Brandi, per la fascia centrale degli affreschi di Tolentino, propone la mano di Giovanni Baronzio.

Attribuzioni nella storia


Forse il primo storico dell'arte che parlò, alla fine del Settecento, del ciclo di affreschi del Cappellone di San Nicola da Tolentino fu l'Abate Luigi Lanzi, nella sua "Storia della Pittura". Il Lanzi, basandosi non si sa in quale documento, attribuì ad Andrea Orcagna sia gli affreschi.

"...che si conservano in San Petronio di Bologna e nel Duomo di Tolentino"


Entrata a Gerusalemme, Tolentino

Molto probabilmente quelli di San Petronio sono gli affreschi di Giovanni da Modena e gli altri quelli del nostro maestro, oggi anonimo. Pur se nell'errore, come capita spesso tra gli eruditi settecenteschi, anche il Lanzi ci dà un involontario suggerimento, cioè l'ambito emiliano a cui apparenta gli affreschi di Bologna con quelli di Tolentino, filtrati attraverso l'influenza fiorentina dell'Orcagna. E' più o meno quello che abbiamo ipotizzato noi parlando di una eventuale visita, se non partecipazione diretta, del cantiere di Assisi.

Gesù nell'orto, San Pietro in Sylvis
Forse i vari maestri sono più di uno,  o forse è esistito un solo Maestro di Tolentino che ha decorato più di una chiesa di Ravenna e dintorni. E questo pittore non è Pietro da Rimini, non è l'Orcagna e non è Giovanni Baronzio (come si credeva nel primo XX secolo), ma un maestro anonimo. L'uso, talvolta scellerato di attribuire, alle volte forzatamente ad un pittore conosciuto le opere di anonimi è un vecchio vizio che era stato perduto nei decenni. Fra molti storici dell'arte di oggi lo si ritrova intatto come era nel Settecento.

Non importa a chi attribuirlo, ma un'opera così importante come gli affreschi del Cappellone di Tolentino, oggi pare vada attribuita ad un maestro conosciuto. Non importa il vero nome, alle volte basta un nome verosimile sia esso Pietro o il Baronzio.

Un'ultima immagine a dimostrazione della consonanza tra i vari maestri, Gesù nell'Orto del Maestro di San Pietro in Sylvis, fate un confronto con la stessa scena del Maestro di Tolentino all'inizio di questo articolo. Se non è lo stesso pittore, i due pittori escono dalla stessa bottega. Probabilmente si tratta di un pittore di Ravenna impropriamente chiamato Maestro di Tolentino.

domenica 1 gennaio 2012

Un'altra attribuzione per La Vergine delle Rocce di Londra: il Giampietrino

Vergine delle Rocce, National Gallery
La "Vergine delle Rocce", con le sue varianti, è uno dei quadri più belli usciti dalla bottega milanese di Leonardo.
In un articolo su Leonardo da Vinci di Andrew Graham-Dixon, pubblicato sul "Telegraph" il 10 novembre 2011, si fa un'affermazione che non condivido: la variante presente alla National Gallery è sicuramente attribuibile alla mano di Leonardo, così come quella del Louvre. Seppur diverse, in molti particolari, per Graham-Dixon sono ambedue di sicura mano del pittore toscano:

"In this case both pictures are certainly by the master, although the later, London version has traditionally been regarded as inferior to its Paris rival"

Le versioni sono decisamente diverse, anche ad un occhio inesperto. Quella francese da sempre è stata creduta di mano del maestro.
La scena avvolta dalla luce del crepuscolo è decisamente leonardesca. La ritroviamo nell'"Annunciazione" degli Uffizi ed anche nella più celebre "Monna Lisa".

Vergine delle Rocce del Louvre
La versione inglese (chiamiamola così) è invece avvolta da una luce lunare che mostra meglio i particolari dei personaggi e la struttura dello sfondo. Diciamoci la verità: è un Leonardo inconsueto, anche se l'autore dell'articolo lo confronta col "Salvator Mundi" e ci trova delle similitudini.

Anche nell'iconografia ci sono differenze importanti. L'angelo che nella versione del Louvre indica al piccolo Gesù la presenza del Battista, in quella della National Gallery si limita a guardare il Bambino senza indicare San Giovannino.
Nella versione inglese i personaggi hanno l'aureola e San Giovanni il classico bastone dell'eremita con la croce, tutte cose che non appaiono in quella francese.

Esuliamo per un momento da questa "querelle" e cerchiamo una strada alternativa. Potrebbero essere due mani diverse, anzi per me lo sono sicuramente, la "Vergine delle Rocce" della National Gallery e di un'altra mano. Ma di chi potrebbe essere? Tra i leonardeschi lombardi DOC, io eliminerei sia il Luini che il Boltraffio. I due hanno una mano diversa, sono molto più autonomi  nello stile di altri allievi come Cesare da Sesto, il Giampietrino o il Salai che sono meno originali e più vicini alla mano del maestro.
Naturalmente questo non è un argomento valido per escludere sicuramente i primi due.
Ma adesso conviene concentrarsi su Leonardo della tela del Louvre e le differenze con la versione di Londra.
La "Vergine" di Parigi tende allo"sfumato", nella versione londinese, invece, tutti gli oggetti dello sfondo sono perfetti, una luce lunare li illumina e li definisce perfettamente.
Non dobbiamo spiegare in questa sede quanto lo sfumato fosse importante per Leonardo, basti guardare la composizione e i colori della "Monna Lisa" per rendersene conto.
In questo periodo Leonardo è a Milano ma si è portato dietro un allievo della sua scuola lombarda: Giovanni Ambrogio De Predis.
Fra il 1483 e il 1486 il dipinto sarà pronto per essere collocato su l'altare della chiesa della Confraternita che l'aveva commissionato.

Giovanni Ambrogio De Pedris, San Sebastiano
In molti ormai sono sicuri che il De Predis collaborò con il maestro per questa tela . Il De Predis lavorava soprattutto come ritrattista per la Corte degli Sforza. In questa ultima veste non fu molto originale, rimasto com'era ai modelli di Piero della Francesca, al massimo botticelliani se non quelli di ambito ferrarese. Ma durante la sua frequentazione di Leonardo acquisì una certa padronanza delle fisionomie leonardesche come si vede nel "San Sebastiano".
Si può tranquillamente accettare l'ipotesi di una collaborazione maestro-allievo per la tela del Louvre.

Potrebbe essere la versione di Londra di mano del De Predis? Cioè una versione della tela senza l'intervento di Leonardo, date le differenze fra le due "Vergini" sopra esposte?  Lo stile non lo confermerebbe. Bisogna cercare allora altrove. Le prima idea, non certo originale, che ho avuto è che possa essere del Giampietrino, soprattutto per i paesaggi molto ben definiti e i colori freddi, mentre gli altri leonardeschi lombardi tendono tutti ad usare lo sfumato.

Un'altra possibilità è riconoscerci la mano di Andrea Solario, ovviamente del periodo leonardesco. Ma anche se non lo escludo completamente, il Solario non frequentava ancora la bottega del maestro al tempo della composizione del quadro.

Gianpietrino, Leda
Se invece confrontiamo la tela di Londra con la "Leda" del Giampietrino, si notano i colori più freddi, i personaggi e lo sfondo più delineati  diversi dagli incarnati di De Predis e i suoi paesaggi. Lo stesso si può dire anche in confronto a quelli di Leonardo in più di un'opera di sua mano.

La "Vergine delle Rocce" della National Gallery di Londra non è di Leonardo da Vinci bensì, molto probabilmente, di Giovanni Pietro Rizzoli detto il Giampietrino.
Con buona pace dei londinesi che si dovranno accontentare di un lavoro di bottega, quasi sicuramente non di mano leonardesca.