mercoledì 12 giugno 2013

50 libri che devono stare nella tua biblioteca

Lo scrittore Roberto Cotroneo ha stilato una classifica dei 50 libri per lui indispensabili.
http://robertocotroneo.me/2012/08/21/50libri/

Se leggiamo l'incipit del suo post, si capisce che ciascuno di noi può stilare una propria lista personalizzata, io ci ho provato:

"Quali criteri? E quale canone possiamo utilizzare nel momento in cui si scelgono 50 classici della letteratura da leggersi assolutamente? Naturalmente i criteri non possono che essere arbitrari e casuali. Ho deciso di utilizzare il metodo del riaffioramento. Ovvero: quali sono i primi 50 che mi verranno in mente? Allora ho aperto un file vuoto sul computer e ho cominciato a scrivere, titolo dopo titolo, spiegando a me stesso, prima che a voi, il motivo della scelta. Dandomi una giustificazione che mi convincesse davvero. In molti casi scrivendo il motivo di un libro ho capito qualcosa di più di un mio percorso privato. Non posso far altro che elencarveli nel modo esatto in cui mi sono venuti alla mente, sperando che possa essere una strada percorribile anche per voi" (R. Cotroneo)

Ecco i miei in ordine sparso. Ho volutamente lasciato fuori le epopee come Iliade, Odissea, Orlando Furioso, Gerusalemme Liberata, ma non ho potuto lasciar fuori La Commedia di Dante, il miglior romanzo di formazione mai scritto.

1) L.F. Céline - Morte a credito
2) L.Tolstoj - Guerra e pace
3) F. Dostoevskij - I demoni
4) A. Camilleri - Il re di Girgenti
5) L. Sciascia - Il giorno della civetta
6) A. Rimbaud - Una stagione all'inferno
7) F. Sacchetti - Il trecentonovelle
8) J. Joyce - ritratto di uno scrittore da giovane
9) Apuleio - L'asino d'oro
10) U. Eco - Il nome della rosa
11) Cervantes - Don Chisciotte
12) G. Tomasi da Lampedusa - Il gattopardo
13) S. King - L'ombra dello scorpione
14) C. Baudelaire - I fiori del male
15) J. Kerouac - Sulla strada
16) A. Ginsberg - Jukebox all'idrogeno
17) M. G. Lewis - Il monaco
18) F. Wedekind -lo spirito della terra e Il vaso di Pandora
19) A. Jarry - Ubu Roi
20) P. V. Tondelli - Altri libertini
21) G. Leopardi - Le operette morali
22) G. G. Marquez - Cent'anni di solitudine
23) J. Amado - Santa Barbara dei fulmini
24) M. Vargas Llosa - La città e i cani
25) J. Neruda - I racconti di Mala Strana
26) A. Moravia - Gl'indifferenti
27) P. P. Pasolini - Una vita violenta
28) A. C. Clarck - Farenheit 451
29) G. Orwell - 1984 e La fattoria degli animali
30) E. M.Remarque - Niente di nuovo sul fronte occidentale e Tre camerati
31) J. L. Borges - Finzioni e L'Aleph
32) C. Dickens - La bottega dell'antiquario
33) H. Boll - Foto di gruppo con signora
34) A. Tabucchi - Sostiene Pereira
35) I. Asimov - Tetralogia della Fondazione
36) A. Manzoni - Storia della colonna infame
37) T. Dery - Il signor A. G. nella città di X
38) F. Kafka - Il castello
39) P. Levi - Se questo è un uomo
40) I. Calvino - Marcovaldo
41) H. Hesse - Il lupo della steppa
42) T. Mann - Morte a Venezia
43) R. M. Rilke - Elegie duinesi
44) J. P. Sartre - Il muro e L'età della ragione
45) H. Miller - Il tropico del cancro
46) Stendhal - Il rosso e il nero
47) Rabelais - Gargantua e Pantagruele
48) C. Levi - Cristo si è fermato ad Eboli

e ultimi ma non peggiori:

49) G. Boccaccio - Il Decameron
50) Dante - La Divina commedia

martedì 22 maggio 2012

Arte e letteratura in...Movimento

Andrea Pazienza, Pippo sballato
Ogni secolo, ogni situazione estrema ha creato i suoi "poeti maledetti". La Bohème francese e gli Scapigliati italiani, in particolare Igino Ugo Tarchetti, ne sono un esempio, così come sono esemplari gli artisti della decadenza Rimbaud, Verlaine, Baudelaire e l'irlandese Oscar Wilde.
Con le Avanguardie Storiche poi l'artista abbraccia la provocazione senza che per questo non debba essere considerato artista a tutti gli effetti.
Penso in particolare agli "outsider" come Majakovskij, Schwitters (di cui abbiamo già parlato), Antonin Artaud, Jean Genet e numerosi altri diffusi in tutta Europa e nelle Americhe.
Venendo cronologicamente più prossimi ai nostri tempi l'arte si disintegra e si ricompone, si passa dal classicismo alla provocazione pura e nonostante il binomio in apparenza contraddittorio, l'arte negli anni '70-'80 prende una sua strada particolare. I figli della Pop Art delle immagini ossessive di Andy Warhol, la decomposizione della società consumistica di Rauschemberg e i fumettoni di Roy Liechtenstein, trovano in ambiente italiano la risposta nel Postmoderno, per la pittura, e nel mondo dei fumetti dove si affermano veri e propri artisti, senza se e senza ma (come si dice in troppe occasioni oggi).
Andrea Pazienza fu forse il più grande e il più creativo, ma Stefano Tamburini e Tanino Liberatore si affermarono con il personaggio esemplare di questa generazione di artisti del fumetto: Ranx Xerox.
Tamburini-Liberatore, Ranx Xerox e Lubna

Come nelle più allucinanti storie Philip Dick e altri scrittori "maledetti" del Cyberpunk, Rank Xerox (il nome cambiò in seguito ad un esposto dell'omonima ditta produttrice di fotocopiatrici la "k" di Rank divenne Ranx) vive in una Roma futuribile divisa in livelli sovrapposti, un po' come i cerchi dell'Inferno di Dante. Ovviamente più si scende e più la società è decomposta, violenta e "borderline".
Sicuramente Gabriele Salvatores prese spunto da questo fumetto per creare uno dei suoi film più "sognanti": "Nirvana".
Tamburini non si fermò di fronte a nessun taboo della nostra società anzi con il personaggio di Lubna li infranse tutti o quasi.
Lubna è un'adolescente, eroinomane e molto proclive al sesso nonostante la sua giovanissima età, una Lolita del futuro. Quindi Ranx Xerox, innamorato della piccola Lubna è, a suo modo, una specie di pedofilo.
Stefano Tamburini si fece aiutare per le prime strisce, nel 1978, da Andrea Pazienza, ma in seguito, dopo il 1980, il suo collaboratore fisso fu Tanino Liberatore.
E fu proprio Liberatore che dette forma al muscoloso androide "coatto" che oggi conosciamo. Con la morte di Tamburini nel 1985 anche il suo personaggio si spense poco a poco, il cervello cibernetico si fermò per sempre.
Ma se Tamburini aveva inventato il prototipo del giovane proletario rivoluzionario della fine degli anni '70, il vero bardo del Movimento fu certamente Andrea Pazienza.
I suoi personaggi sono diversi dall'androide di Tamburini, più realisti, più legati all'attualità. In maniera particolare Penthotal, ma anche Zanardi e i suoi compagni di università ed infine Pompeo.
Queste tre figure attraversano la fine degli anni '70, i primi anni '80 e l'alba degli anni '90 con il problematico e filosofico Pompeo, la cui storia fu pubblicata nel 1987, un anno prima della morte del suo autore.
L'arrivo e la dipartita di questi due genii del fumetto artistico, la loro parabola di vita e infine la loro prematura morte si possono inquadrare, usando le parole di un altro morto eccellente: Pier Vittorio Tondelli, nella genialità e disperazione del Movimento del '77.
Andrea Pazienza, Le straordinarie avventure di Penthotal

Dice Tondelli parlando di Pazienza:
Andrea Pazienza è riuscito a rappresentare, in vita, e ora anche in morte, il destino, le astrazioni, la follia, la genialità, la miseria, la disperazione di una generazione che solo sbrigativamente, solo sommariamente, chiameremo quella "del '77 bolognese"
(Andrea Pazienza 1988 in "Un Weekend postmoderno")
Tondelli, anche lui di quella generazione e dello stesso ambiente, forse aveva intuito, o forse no, che sarebbe stato il prossimo martire dello stesso destino, la genialità e la follia del Movimento del '77. Morirà infatti nel 1991.
Il fumetto d'autore si era già diffuso sin dai primi anni '70 da artisti di buon calibro come Hugo Pratt, Milo Manara e Guido Crepax, ma l'arrivo di Pazienza scardinò le linee pulite e la continuità del disegno.
Pazienza s'affidava ad intrecci stilistici diversi, talvolta nella stessa tavola. I suoi personaggi passavano tranquillamente dalla caricatura al puro realismo. Spesso le sue tavole erano dei veri e propri quadri. Altre volte suggerivano stile e personaggi altrui. Fanno spesso pensare a Magnus, ma anche ai fumetti underground del situazionismo francese come quelli di Max Capa.
I mostri di Capa, e i suoi corvi parlanti, riempiono le notti e gli incubi di Penthotal. Ma che ruolo gioca la letteratura in tutto questo?
Max Capa, Puzz 1975
Pazienza è anche un genio della parola, lo slang parlato dai suoi personaggi è misto di generazionale e arcaico.
Generazionale in quanto riporta, come un antropologo il linguaggio dei giovani del Movimento, i dubbi e le passioni.
Arcaico perché inframezzato da una lingua antica e oscura, una specie di pugliese (la sua lingua madre) riadattato a situazioni di conviviale sconvolgimento a base di marijuana e LSD, nei primi tempi, sempre più eroina con l'inizio degli anni '80.
Diceva Allen Ginsberg nel suo "Diario indiano" che troppo spesso i fanatici della Beat Generation non superavano il confine tra le droghe pesanti e la spiritualità, amavano le traversate del continente a forza di anfetamine, il mondo tossico di William Burroughs, ma non apprezzavano la ricerca spirituale e poetica dei romanzi e delle poesie scritte dagli artisti beat.
La stessa cosa dobbiamo fare con i fumetti della generazione del '77, godere della loro bislacca poeticità da "artisti maledetti" e accogliere il "lato oscuro" come una bella rappresentazione, in negativo, di quegli anni.
La lingua di Pazienza è una lingua "oltre", una specie di esperanto, ma ben compresa dalla sua generazione, la generazione del trasversalismo, quella di A/traverso e Zut, una generazione antipolitica, anzi spesso anche troppo politicizzata. La generazione delle prime radio libere, quando i media sono stati, per la prima volta, al servizio del contro/potere e non del potere.
Anche se mancavano i social network e you tube, non esisteva il variegato mondo di internet, fu quella generazione che per la prima volta usò il "medium" come diceva Mc Luhan, trasformandolo in messaggio, anzi in messaggio rivoluzionario.
La lingua di Andrea Pazienza

Si diffusero in maniera esponenziale le Fanzine, i giornali di Movimento, che sino a quel momento erano rappresentati soltanto da "Re Nudo", e poi la diffusione delle telecamere portatili e delle cassette audiovisive, insieme alle radio, fecero il resto.
Nacquero esperienze dadaiste come gli Indiani Metropolitani, gruppi rock e cantautori vicini al Movimento come gli Skiantos (sempre in area bolognese), Gianfranco Manfredi e Ricky Gianco.
Anche la letteratura ne fu altrettanto influenzata, nacque la prosa rockkettara di Tondelli, quella di Movimento di Enrico Palandri, e poi di Bifo con il suo libro "Chi ha ucciso Majakovskij?"  e nacquero apposite case editrici come la "Squi/Libri" che pubblicò i testi del movimento trasversalista.
Quella del '77 fu una generazione distrutta dall'eroina e dal terrorismo, ma dietro a sé lasciò una grande eredità e artisti come Tamburini, Pazienza e Tondelli, ma fu probabilmente l'ultimo sussulto dell'underground italiano.



giovedì 26 aprile 2012

Il Savoia disse: "Delenda Florentia"

"L'ANTICO CENTRO DELLA CITTA'
DA SECOLARE SQUALLORE
A VITA NUOVA RESTITUITO"
A Firenze nel corso dei secoli, sono stati costruiti vari archi di trionfo. Probabilmente sin dal tempo della Florentia romana, anche se non abbiamo testimonianze archeologiche. Sicuramente il Rinascimento costruì molti archi trionfali, soprattutto nel periodo mediceo, ma la maggioranza di questi erano apparati effimeri. Quasi che i Medici presagissero il loro passaggio nella città, ma non come ultima dinastia. Chissà comunque non ci sono rimasti archi del loro passaggio, ma in compenso hanno arredato la città con ben altri monumenti.

Il primo proprio e vero arco trionfale fiorentino è quello che fu costruito per l'arrivo del nuovo granduca Francesco Stefano, il primo dei Lorena salito al trono del Granducato nel 1737.
Un tempo l'arco troneggiava davanti alla porta medievale di San Gallo. Dopo l'abbattimento delle mura cinquecentesche intorno alla porta, l'arco non ha più ragione d'essere, si trova al centro di una piazza senza un vero perché urbanistico.

Ma chi ha compiuto questo obbrobrio? E perché?
Forse la presenza di un ulteriore arco trionfale, quello dei Savoia che incornicia la piazza, oggi detta della Repubblica, dedicata al re galantuomo, ma che con Firenze fu tutt'altro che tale, ci fornisce la spiegazione.
Anche la piazza dedicata a Vittorio Emanuele non aveva un senso urbanistico preciso. Aveva soltanto distrutto l'ex Ghetto, ma anche le ultime vestigia della prima urbanizzazione romana distruggendo l'incrocio tra il cardo e il decumano maximo.
Ghetto, Torre degli Armieri

L'arrivo della sciagura si compie nel 1856 quando disgrazia vuole che Firenze venga eletta come capitale, transitoria, del Regno d'Italia.
Firenze ebbe uno stravolgimento come mai era più successo dopo l'arrivo dei Lanzichenecchi nel 1530. Ma almeno loro si limitarono a saccheggiare la città. I Savoia, o chi per loro, si lasciarono dietro molte vittime, soprattutto chiese medievali.
Firenze, come moltissime città italiane, è un microcosmo, un ambiente dall'equilibrio precario, quasi un'oasi.
Alla Florentia romana si è sovrapposta la medievale, accanto alla medievale è nata quella rinascimentale.
Nessun secolo posteriore, nessuno stile né il Barocco né il Rococò, ha contaminato le linee pure albertiane e brunelleschiane della città. Certo bisogna anche pensare che dopo più di un secolo ormai i Lorena erano fiorentini, questi nuovi padroni invece no, ed a Firenze c'erano di passaggio. Purtroppo non è stato un passaggio indolore. La massima lasciata sull'arco della vergogna recita: "L'antico centro della città / Da secolare squallore / A nuova vita restituito".
Secolare squallore?
Certo che questi regnanti che venivano da squallide borgate di montagna, come potevano apprezzare il "secolare squallore" del Ghetto e del Mercato Vecchio? Loro ancora vivevano nel Medioevo.
Purtroppo l'abuso durò molto tempo, anche troppo e dopo il trasferimento della capitale a Roma, nel 1871, continuò per tutto il periodo umbertino.
Giovanni Stradano, Piazza del Mercato Vecchio
 (seconda metà del XVI secolo)
Una parte della città scomparve veramente, per lasciare posto a giganteschi, quanto inutili, loggiati sproporzionati rispetto all'arredamento urbano delle viuzze medievali che costeggiano l'ex ghetto fiorentino.
Per ritrovare un simile scempio bisogna aspettare la distruzione del Borgo della Spina a Roma, cancellato per farne un brutto monumentale stradone che distrusse anche il senso scenografico del Colonnato di Bernini: via della Conciliazione e vogliamo parlare di via dei Fori Imperiali?
Ma quel poveretto era un maestro di scuola che ne capiva di urbanistica? Ma i Savoia non hanno dimostrato questa grande preparazione in questo senso e invece di usare la livella, per nuove realtà o cambiamenti urbanistici, hanno usato la ruspa a Firenze. E tutto ciò per restituire vita all'antico centro e spazzando via il secolare squallore.
Sicuramente il Ghetto fiorentino non era meglio degli altri ghetti di altre città italiane. I fiorentini di religione israelita si erano, per secoli, stretti intorno a questo labirinto di viuzze. Ma l'esplosione demografica aveva inventato un ghetto dalla conformazione particolare. Per la prima volta le case sono costrette ad andare in verticale anziché in orizzontale. Gli ebrei fiorentini che scoppiavano dentro il ghetto e cominciarono a costruire dei piccoli grattacieli.
Fabio Borbottoni, Ghetto (fine XIX secolo)

In poco tempo la città si trasforma e il ghetto, col suo mercato, la Colonna dell'Abbondanza (che segnava il centro dell'antico "castrum" da cui si è evoluta la città) diventano paesaggi urbani e popolari, pieni di persone come nelle tele di Telemaco Signorini, o paesaggi quasi metafisici come nelle tele di Fabio Borbottoni.

Grazie ai pittori e le foto degli Alinari, possiamo respirare ancora l'aria popolare del centro medievale della città e gustarsi la visione delle secolari.stratificazioni della città di Dante.
Poi sono arrivati i Savoia e hanno trattato la città come un banco di prova per l'inserimento delle loro novità urbanistiche. Insomma hanno preso Cartagine e l'hanno distrutta per ricostruire una nuova Cartagine a loro immagine e somiglianza: cioè brutta. Anche se Firenze è difficile diventi brutta, neanche i barbari piemontesi ci sono veramente riusciti, ma diciamo che ce l'hanno messa tutta.



domenica 22 aprile 2012

I benandanti di Ruzante

Leonardo da Vinci, Benandante
I Benandanti erano una specie di stregoni benigni che "alle tempora" si scontravano con i loro nemici giurati: gli stregoni malvagi devoti a Satana. A seconda della fazione vincente il raccolto sarebbe stato abbondante o scarso.
Questo è in due parole la rozza descrizione di un fenomeno molto più complesso e pieno di simbologie, prevalentemente riferite a "oscuri" riti agrari, molto prossimi a quelli pagani. Nelle campagne, i cosiddetti "pagus" (da cui il termine pagano), questi riti erano rimasti a testimonianza di una religione quasi animista, più che pagana, ancora presente nelle campagne e motivo di roghi, specialmente di streghe, durante il periodo dell'Inquisizione. Probabilmente la cristianizzazione del rito della battaglia per il raccolto dei benandanti è avvenuta in seguito ed è una contaminazione di un rito più antico

"Quando il racolto vien buono, cioè della robba purasai, et bella, quell'anno è che li benandanti habbiam vinto; ma quando li strigoni vincono, il raccolto va male"
(Testimonianza di un benandante all'Inquisizione)

Il volume di Carlo Ginzburg "I benandanti" spiega con abbondanza di particolari  questa usanza affidandosi alle carte di quel processo dell'Inquisizione, del '600, dove vengono, forse per la prima volta, ascoltati alcuni abitanti delle campagne friulane dediti a questo rito periodico: i benandanti appunto.
Naturalmente la Chiesa Cattolica, attraverso la "longa manus" degli inquisitori, non può tollerare un rito che più che cristiano pare il paravento cristianizzato di un vero e proprio sabba. Ed è questo che cercano di far confessare, anche attraverso la tortura, ai cosiddetti benandanti. Il processo non dà i risultati previsti e, probabilmente anche dopo la condanna "teologica" del fenomeno e degli inquisiti, questo rito è difficile sia totalmente scomparso.
Pieter Bruegel, Combattimento tra Carnevale e Quaresima

Una delle caratteristiche del benandante è la sua arma inconsueta: un ramo di finocchio. Mentre lo stregone suo nemico impugna una canna di sorgo.
Qualunque antropologo potrebbe spiegarci chiaramente che non abbiamo a che fare con vere e proprie armi, ma con delle "armi magiche", così come lo scontro tra le due fazioni: bene contro male, proviene o è alla base di quelle rituali battaglie che avvenivano ad esempio alla fine del carnevale, la cui morte viene decretata dall'arrivo della quaresima.
Anche questo è stato un rito molto diffuso, la tela mirabolante di Pieter Bruegel ne è la testimonianza migliore. Anche le armi con le quali si confrontano i due personaggi sono armi "simboliche" più che armi vere e proprie. Uno spiedo per Carnevale e una pala da fornaio per la Quaresima.
Ma questa battaglia, con un destino già segnato (ma non sempre), era invece tollerata dalla Chiesa.
Così come la stessa chiesa tollerava, ed anzi vi partecipava in prima persona, a quel rito analogo che ancora oggi si celebra a Firenze, cioè lo "Scoppio del carro".
Anche questo rito "paganeggiante" dava, a seconda di quanti piani del "Brindellone", il nome che i fiorentini usano per indicare il carro, scoppiano. Se sono pochi il raccolto non sarà granché, se scoppia tutto il carro ci sarà abbondanza.
Il feneculum vulgaris (Antico erbario)

Ma torniamo alle armi magiche delle due fazioni in lotta nel rito delle "tempora" friulano. E soffermiamoci in particolare sull'arma del benandante: il finocchio.
Il finocchio è una pianta officinale, per questo motivo forse viene considerata un ausilio per l'uomo contro il male.
Fra i vari usi viene consigliato, sin dal tempo dei greci, contro i morsi dei serpenti e gli scorpioni.
Con questa funzione medicinale lo si ritrova in Dioscoride: "De materia medica" (I secolo d.C.). Ma colui che canta le lodi e le doti farmacologiche del finocchio è Plinio il Vecchio nella sua "Historia naturalis", sempre nel primo secolo:

"Da quello coltivato [il finocchio] si ricavano medicine contro il morso degli scorpioni e dei serpenti, bevendone il seme nel vino"
(Historia naturalis, XX, 96)

Quindi il finocchio è una pianta benefica, anche se non è detto che questa sia la sua reale funzione nella battaglia fra i due principi antitetici rappresentati dalle due fazioni in lotta per il buon esito del raccolto.
Ma lo stesso finocchio veniva usato nei roghi delle streghe, dove ne era gettato in abbondanza. La storia ci tramanda che fosse usato per attenuare l'odore della carne bruciata, ma al di là di questa spiegazione razionale, a mio avviso anche in questo caso la simbologia di esorcizzazione del male non è peregrina.
Angelo Beolco, drammaturgo cinquecentesco presso la corte padovana di Alvise Cornaro, scrisse una quantità di commedie cosiddette "alla villanesca"  cioè che mettevano in scena le avventure, tragicomiche di un contadino chiamato: Ruzante.
Palcoscenico della "Betìa" (dal manoscritto di Ruzante)

In seguito anche lo stesso Beolco prese il nome dal suo personaggio e fu chiamato Ruzante (o Ruzzante).
Nelle sue commedie spesso i contadini padovani si richiamano alle mitologie agrarie, in una di queste intitolata "La Betìa", Nale (il Ruzante della situazione) perpetra una beffa alla moglie che lo crede morto nella quale fa finta di essere tornato da lei sotto forma di spirito.
Tamìa, la moglie, è curiosa di sapere com'è fatto l'aldilà e chiede a quello che crede lo spirito di Nale delucidazioni.
E qui inizia una vera e propria favola, Nale lascia andare la sua fantasia e l'inferno è descritto come nelle più sanguinose raffigurazioni in affresco o mosaico del Medioevo.
Ma la base del racconto di Ruzante deriva dalla fiaba popolare, quella che Vladimir Propp ha delineato così bene nei suo saggi: "La morfologia della fiaba" e il successivo "Radici storiche dei racconti di fate".
Il racconto di Nale inizia come una classica fiaba, per arrivare nell'aldilà, secondo Ruzante, occorrono

"Trenta megiara de megiara de mì (trenta migliaia di migliaia di miglia)"

Propp invece ci ricorda come decine e decine di fiabe iniziano con: "in un paese lontano lontano" (o anche in un regno o in una terra) la cui lontananza non è misurabile.
Ma anche altre fonti letterarie, oltre il Ruzante, usano questa formula fiabesca, ad esempio Giovanni Boccaccio nel "Decameron". Nella terza novella dell'ottava giornata Calandrino diventa protagonista della beffa perpetrata ai suoi danni nel racconto dell' "Elitropia", la pietra nera dalle magiche virtù che si trova nella contrada di Bengodi nel paese dei Baschi.
Alla domanda di Calandrino: "e quante miglia ci ha?", Maso del Saggio risponde come nelle fiabe popolari:

"Haccene più di millanta, che tutta notte canta"
(Dec., VIII, 3).
Dante, Divina Commedia - La selva oscura
(ms. British Library 1340 circa)

Ovviamente anche in Propp l'eroe della fiaba finisce nell'aldilà passando attraverso varie prove, con aiutanti e armi magiche. Come nei benandanti le fronde di finocchio servono per combattere il male, così l'eroe delle fiabe sconfigge, con l'aiuto di "un mezzo magico", draghi e nemici di ogni genere, ma soltanto dopo aver attraversato il confine tra la vita e la morte.
E come per un eroe della fiaba, anche l'arrivo di Nale nel paese "lontano lontano" è stato velocissimo. Narra infatti di esserci arrivato "in t'un bater d'ogio".
Ma questa velocità non è benefica per il personaggio di Ruzante. Infatti si lamenta che nella rapidità con la quale si arriva all'inferno:

"Una festuga de fenogio portare no se pò, se no el so fiò, che è l'anema che no muore"
(Ruzante, Betia, V, 689-92)

Ed è qui che la cosa si fa interessante, perché l'anima di Nale, tanta è la velocità del passaggio tra il nostro mondo di mortali e l'altro mondo che non riesce neanche a strappare un ramo di finocchio.
Forse per mantenere il suo rapporto con il mondo reale, colui che arriva nel mondo dei morti, ha una connessione particolare con il mondo vegetale. Chi non ricorda la "selva oscura" di Dante?
Ma già in precedenza, eroi greci e romani dei poemi epici, avevano avuto la medesima esperienza, a partire dai due più famosi come Enea e Ulisse.
Quindi il passaggio tra il mondo dei vivi e quello dei morti avviene attraverso un bosco.
Pollicino dei Grimm lo attraversa per andare nella casa dell'Orco, Enea per entrare nell'Averno, e per Ulisse nell'Ade.
Bisogna anche notare che la parola "orco" non è soltanto riferibile al mostro che incontra Pollicino, ma anche altri protagonisti delle fiabe popolari, ma spesso era usato come sinonimo dell'inferno o semplicemente aldilà.
Anche i protagonisti greco-romani della discesa agli Inferi passano questa selva oscura.

"...dov'è una bassa spiaggia e boschi sacri a Persefone [la moglie di Plutone dio dell'oltretomba]
alti pioppi e salici dai frutti che non maturano,
[...]
e scendi nelle case putrescenti dell'Ade"
(Odissea, X, 510-516)
Francesco Corneliani, Enea condotto dalla Sibilla


Ovidio invece descrive
"...una via che in declivio si perde fra il fosco di tassi funerei; attraverso muti silenzi conduce agli inferi"
(Metamorfosi, IV, 431)


Ma ciò che accomuna Ruzante a Virgilio è la condizione "sine qua non" il viaggio agli inferi non è permesso.
In ambedue i casi è presente un ramo.
Anzi il "Ramo d'oro" usato da Frezier come titolo del suo saggio più importante. Scritto a fine '800 ma ancora basilare per lo studio dell'etnologia..
Sia Ruzante con il ramo di finocchio che Virgilio per il ramo d'oro si devono procurare un simbolo, Propp lo definirebbe: un aiutante magico, per non trovarsi in completa difficoltà di fronte all'oscuro mondo dell'aldilà.
Ma cos'è il ramo d'oro dell'Eneide?
Probabilmente il vischio come accenna lo stesso testo:
Loki uccide Balder con un ramo di vischio
(Manoscritto vichingo dell'Edda di Snorri)

"Come il vischio, che si riproduce su un albero suole nel freddo invernale, verdeggiare di fronda novella nei boschi e avvolgere i tronchi rotondi con gialli aurei frutti, tale era l'aspetto dell'oro frondoso sull'elce ombroso"
(Eneide, VI, 6)

Ma quel "come" ci mette in allarme visto che, ad occhio e croce siamo di fronte ad una similitudine. Dunque il vischio non è il ramo d'oro.
Dalla mitologia Scandinava possiamo fare un confronto con la storia del perfido Loki che uccide, anzi fa uccidere da un dio cieco il guardiano del Wallhalla: l'amatissimo Baldr (o Baldur o Balder nella versione tedesca della stessa mitologia), appunto con un ramo di vischio.
La somiglianza fra l' "Eneide" e l' "Edda di Snorri" da cui è tratta la storia è abbastanza inspiegabile, vista la lontananza, anche geografica, di queste due antiche religioni.
Però va tenuto conto che anche oggi questa piccola pianta è portatrice di un simbolo di fortuna e lungo amore. Quindi una pianta legata ad un potere "magico" che ancora oggi gli attribuiamo.

La grossa differenza fra il destino di Nale di Ruzante e quello di Enea è che l'eroe troiano riesce a trovare il talismano per poter entrare ed uscire dall'Ade, mentre nella favola inventata da Nale per prendersi gioco della moglie, lui non riesce a prendere l'arma magica dei benandanti ed è costretto a rimanere confinato fra i tormenti dell'inferno cristiano.
Tutto ciò ci fa sospettare che Ruzante avesse ben presente i riti dei benandanti e le loro battaglie propiziatorie.D'altronde sappiamo bene che Ruzante, nella sua veste di amministratore delle proprietà padovane della famiglia Cornaro, aveva raccolto il materiale servito per le sue commedie, direttamente dalla viva voce dei villani del XVI secolo.
In fondo Ruzante fu un precursore degli studi degli etnologi e antropologi del nostro tempo.



sabato 14 aprile 2012

L'Unicorno di Pantaleone

Mosaico di Otranto, Bestiario (part.)
Il mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto è una vera e propria visione del mondo e della cultura medievale.
Il monaco Pantaleone è il suo autore. Prima di cercare fra i simboli inseriti in questa opera qualcosa di strano e fuori dalle righe, cerchiamo qualche notizia sul suo autore.
Questo è infatti il primo dei tanti misteri che avvolge l'opera.
Sullo stesso pavimento ci sono notizie sull'autore e la datazione dell'opera. Una cosa abbastanza inconsueta è la firma del pittore in opere di questo periodo.
Sempre secondo la scritta scopriamo che questa opera è datata 1165, anche se sappiamo che fu finita in tre anni la data presumibile d'inizio dell'opera è il 1163.


 Incar(n)atione D(omi)ni N(ost)ri Ih(es)u Chr(ist)i MCLXV I(n)dictio(n)e XIII Regnante Do(mi)no N(ostr)o W(illelmo) Rege Magnifi(co) Humilis Servus Ch(risti) Ionathas Hydruntin(us) Archiep(iscopu)s Iussit Hoc Op(us) Fieri P(er) Manus Pantaleonis P(res)b(yte)ri"


Naturalmente le abbreviazioni sono state integrate per una migliore comprensione della scritta pavimentale.
Il significato è abbastanza palese: il presbitero Pantaleone fece quest'opera nell'anno 1165, sotto il regno di Guglielmo e durante il mandato arcivescovile di Gionata di Otranto.
La prima notizia, cioè che è stato finito nell'anno 1165 ab incarnatione ha già un piccolo mistero cioè se la data riportata corrisponde, per noi moderni, all'anno 1165 o il 1166. Quello che fino al tardo '700 era chiamato "anno ab incarnatione" non iniziava il primo di gennaio bensì il 25 marzo, giorno nel quale il Cristo, vuole la tradizione, sia stato concepito.
Resti del Convento di San Nicola di Casole
Dunque se il mosaico è stato finito tra il 1 gennaio e il 25 di marzo per il nostro calendario dovrebbe già essere il 1166.
L'uso dell'anno ab incarnatione è continuato per molto tempo dopo il XII secolo. Ad esempio veniva usato dai fiorentini e i veneziani. Per differenziarlo dall'altro computo a Firenze si aggiungevano una "s" e una "f"(che stanno per "stile fiorentino"). Mentre a Venezia era in vigore il "more veneto" (m.v.) che invece faceva partire l'anno il 1 marzo.
Sul presbitero Pantaleone abbiamo soltanto notizie incerte che lo vogliono monaco basiliano del convento di rito greco di San Nicola di Casole, presso Otranto. La presenza dei monaci basiliani in Italia è testimoniata da vari conventi diffusi nell'Italia meridionale. Arrivati probabilmente con l'occupazione bizantina del VIII secolo, i Basiliani stavano fuggendo dall'oriente in seguito al periodo iconoclasta instaurato nell'Impero Bizantino dopo il 726.
Il Monastero di Casole fu celebre per il suo "scriptorium", che pare niente avesse da invidiare all'omonimo dell'imperatore Federico II. Quindi si tratta di un monastero dove s'incrociarono le culture greca, latina e normanna, infatti nel mosaico di Otranto tutte queste influenze sono presenti.
Potrebbe essere interessante esaminarne gli aspetti teologici dell'opera, ma non sarebbe altro che una goccia nel mare delle decine e decine di interpretazioni, troppo spesso fantasiose di questa opera singolare, ma non l'unica in area pugliese.
Nel nostro caso vogliamo invece puntare l'attenzione su un aspetto particolare delle mille raffigurazioni del mosaico. Ma dobbiamo partire da lontano, in particolare una lontananza geografica che ci stupisce, ma anche da vicino, una vicinanza cronologica che ci stupisce altrettanto.
Non è il caso adesso di affrontare certe simbologie per capire il programma che sta dietro l'opera, come la presenza di Diana cacciatrice, una dea pagana in un contesto cristiano avrà una sua ragion d'essere. Ma Diana (tanto cara agli efesini come ci racconta San Paolo) è stata per molto tempo accostata ad un residuo di paganesimo delle campagne, è la dea madre a cui si rivolgono spesso le streghe e i cerretani. Ma Diana è anche una dea vergine "colei che tutta l'Asia, anzi tutto il mondo, adora" (Atti, 19, 27) e non può non ricordare certe consonanze con la figura della Madonna. E la presenza di Alessandro Magno che transita verso il cielo non richiama alla mente la resurrezione? Può darsi, data la diffusione di questa rappresentazione iconografica anche in altri cicli delle chiese romaniche.
Rex Arturus
Ma quello che ci stupisce è la presenza della raffigurazione di Re Artù (REX ARTVRVS). Anche se è un piccolo inserto nel vasto ciclo musivo l'attinenza col resto dell'iconografia è decisamente singolare.
Intanto dobbiamo ammirare la vasta conoscenza del monaco, o di chi ne ha stilato il programma, che ci rimanda alle opere presenti nello scriptorium di Casole. Sicuramente le leggende del "Ciclo bretone" erano presenti nel monastero già dal 1163, cioè il presunto anno d'inizio dell'opera di Pantaleone. Ma a quale manoscritto si riferisce questa raffigurazione?
Difficile dirlo con certezza, vista la distanza geografica e la vicinanza cronologica. Partendo dai manoscritti arturiani del ciclo bretone troviamo una notizia interessante: la storia di Artù ha una sua appendice italiana (o meglio siciliana) narrata alla corte del re normanno Guglielmo dal cronachista inglese Gervasio di Tilbury. Siamo nel 1160, i normanni hanno ormai il controllo dell'Italia meridionale, e Guglielmo è lo stesso re citato da Pantaleone come "Willelmo Rege Magnifico".
Gervasio racconta come il leggendario Artù vivesse in un palazzo sulle pendici dell'Etna. Ma seguiamo il racconto:

"...narrò come, ferito anticamente in una battaglia da lui combattuta contro il nipote Mordred e Childerico, duce dei sassoni, qui stesse da molto tempo, riaprendosi tutti gli anni le sue ferite"
Bestiario, L'Unicorno

Ma il 1160 è decisamente troppo vicino al 1163 data d'inizio del mosaico, probabilmente non è questa la fonte di Pantaleone.
Però ci siamo dimenticati i Normanni, ovviamente coloro che ormai dal IX secolo erano padroni dell'Inghilterra oltre le merci e l'arte nordica è difficile pensare che non abbiano esportato le proprie leggende. Poi abbiamo i Cavalieri del Tempio, in quel periodo reduci dalle Crociate e anche loro diffusi tanto in Puglia che in Francia, in Provenza e nella lontana Scozia.
In quale modo i Templari entrano nella storia della Cattedrale di Otranto non ci è dato di sapere, anche se alcune fonti vedono in alcuni simboli del mosaico proprio l'influenza dei Cavalieri del Tempio (ad esempio la scacchiera che si trova quasi all'inizio della navata della cattedrale). Ma si sa, anche se è fantastoria, i Templari, gli Egiziani e gli UFO sono alla base di mille interpretazioni di trasmissioni televisive paraculturali come "Voyager", o certi giornaletti di diffusione "popolare", come "Focus", un vero e proprio coacervo di bugie e verità presunte. E' questa quella tipologia di cultura anticamente detta "ad usum delphini" che mischia le sciocchezze con vere e proprie distorsioni della storia.
Eliminando, nel nostro caso, gli UFO non ci rimangono che i Templari e gli Egizi. Ci sono certe interpretazioni ermetiste e esoteriche che vedono nel mosaico la presenza, oltre a quelle greco-romane come Artemide-Diana, di divinità egiziane. E qui caliamo un velo pietoso e rimandiamo alla bibliografia delle stupidaggini molto presenti in rete.
Ma anche noi vogliamo dare un'interpretazione alla "Focus" di una delle tante raffigurazioni presenti in questo mosaico: l'unicorno che si trova in mezzo ai medaglioni del cosiddetto bestiario.
Questo animale fantastico viene spesso usato come metafora del Cristo nei bestiari medievali, come in quello di Bodley del 754 che dice in proposito:

"...Dominus noster Iesus Christus, spiritualis unicornis, descendens in uterum virginis..."


Dama con l'Unicorno, Arazzo fiammingo XV sec.
Infatti anche nel Bestiario di Pantaleone l'animale consacrato a Gesù è simbolo di preghiera, dato che un cavaliere inginocchiato con le mani giunte è davanti a lui in gesto di adorazione.
Ma chi è questo cavaliere? Sempre che si tratti di un cavaliere, il mosaico non ce lo fa capire molto bene dato anche la rozza rappresentazione iconografica.
Io avrei una risposta (o meglio una proposta interpretativa). Data la presenza di Artù si potrebbe trattare di un altro personaggio del "Ciclo bretone".
Ma chi potrà mai essere un personaggio così puro, nell'anima e nel fisico, che può avvicinare un animale  sacro come l'unicorno?
Forse potrebbe essere Parsifal.o Galahad, il figlio di Sir Lancillotto. Ma la cronologia non ci aiuta, Parsifal, o Perceval e Galahad compaiono ne "Le Conte du Graal" di Chrétien de Troyes scritto intorno al 1180, quindi posteriormente al mosaico di Otranto. Sappiamo di un'opera intitolata "Perceval" di Robert de Boron, oggi perduta, ma anche questa scritta probabilmente dopo la composizione dell'opera di Pantaleone.
Quindi il ciclo bretone in questo caso non ci aiuta.
Chi può essere allora quel cavaliere? In fondo è l''unico essere umano che compare nel Bestiario di Pantaleone.

martedì 10 aprile 2012

Mostra di Tintoretto a Roma

Ultima cena

Finalmente, dopo 70 anni dall'ultima mostra del 1937, Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, ha l'occasione di ripresentarsi al pubblico romano con una mostra monografica.

Il Tintoretto, uno dei tre mostri sacri della pittura veneta del '500 insieme a Tiziano e Veronese, è forse fra i tre il meno conosciuto. La sua pittura parte dai grandi esempi della pittura veneziana dai Bellini a Tiziano. Ma il Tintoretto si distacca violentemente da Tiziano, pur mantenendo i colori e la pennellata grassa delle ultime opere del Vecellio.
Tintoretto dà una visione nuova alla pittura, veneta e non solo. I suoi cieli scuri, spesso burrascosi fanno da sfondo a opere di grande spessore iconografico. Introduce in maniera ripetitiva le sue prospettive, spesso angolari e con azzardati giochi di luci ed ombre, lontani dalle prospettive solari del suo contemporaneo Paolo Veronese e si avvicina invece alle opere dei maestri lombardi come il Moroni, fino ad influenzare lo stesso Caravaggio che condivise e poi esasperò la stessa tecnica delle luci e delle ombre del Tintoretto aprendo la strada alla pittura barocca del secolo successivo.

Per capire bene la differenza tra le opere di Veronese e Tintoretto basta mettere a confronto la sua "rivoluzionaria" "Ultima cena" con la "Cena a casa di Levi" del pittore di Verona. Nella prima i personaggi si muovono, spesso in maniera apparentemente caotica, in un ambiente oscuro, illuminato da lampade e torce. La prospettiva naturalmente è angolare.
Mentre la "Cena a Casa di Levi", che ha un'interessante storia di censure e Santa Inquisizione, è il trionfo della luce, dei cieli tersi, dei colori sgargianti, degli esotici richiami all'Oriente, con nani, scimmie a guinzaglio, pappagalli, insomma una vera e propria festa veneziana.
Veronese, Convito a casa di Levi

Forse per questo motivo il Veronese fu premiato con importanti commissioni dalla Repubblica di San Marco come la decorazione del Palazzo Ducale. Le sue allegorie sono un vortice di luce e di colori. Tintoretto seguì un'altra strada. Decorò chiese e conventi, il suo stile rivoluzionario cambiò la pittura, anticipando certi stilemi barocchi, che di lì a poco, con Caravaggio e i Carracci cambieranno il corso dell'arte italiana.

Nella mostra, oltre le principali opere del maestro veneziano come "Il trafugamento del corpo di San Marco", forse la sua opera più celebre, sono esposti anche altri pittori dell'ambiente veneto dell'epoca come: Tiziano Vecellio, Paolo Caliari detto il Veronese, lo Schiavone e Bonifacio Veronese. Oltre una rapida panoramica tra i tardo rinascimentali italiani e stranieri come Lambert Sustris, il Parmigianino e il grande El Greco.

La Mostra sul Tintoretto, a Roma fino al prossimo 12 giugno alle Scuderie del Quirinale, è curata da Vittorio Sgarbi con i testi di Melania Mazzucco.

sabato 7 aprile 2012

La piccola storia di Franco

Isola  delle Bambole
...appena si furono lasciati, il cavalier B. andò a caccia di informazioni: esse non furono magnifiche.

Era curioso di conoscere un po' il suo uomo; poteva senza sconvenienza fargli una visita? I pochi ragguagli che poté ottenere non erano incoraggianti.

-E' spaventoso- disse al suo padrino -E' impossibile ch'io confessi d'essermi battuto con un semplice borghese marito della duchessa F.d.C., e ancora che il mio cocchiere m'ha preso i miei biglietti da visita.-
-E' certo che in tutto ciò v'è possibilità di ridicolo-

La sera stessa il Cavalier B. e il suo amico dissero qua e là che quel signor M., che era poi un giovane molto perbene, era figlio naturale d'un amico intimo del duca-padre. Questa notizia fu accolta senza troppe difficoltà. Una volta che ciò fu cosa convenuta, il giovane diplomatico e il suo amico si degnarono di fare qualche visita a F.C., nei quindici giorni che egli passò in camera.

All'Opera il cavaliere di B. lo presentò al famoso cantante che vi riportava successi immensi.
F. faceva quasi la corte al cavaliere; quel misto di rispetto per se medesimo, d'importanza misteriosa e di fatuità, lo affascinava. Per esempio il cavaliere tartagliava leggermente perché aveva l'onore di trovarsi spesso con un gran signore che aveva questo difetto.


F.C. non aveva mai trovati riuniti in una sola persona il ridicolo che diverte e la perfezione delle maniere che un povero provinciale deve cercar d'imitare.
Lo si vedeva all'Opera insieme col cavaliere di B.; questa intimità fu occasione che lo si nominasse.
-Ebbene- gli disse un giorno il duca-figlio -eccovi dunque figlio naturale d'un ricco gentiluomo dell'Insubria, intimo amico di mio padre!-

Il duca interruppe F., che protestava di non aver contribuito in alcun modo ad accreditare la voce.
-Il signor B. non ha voluto essersi battuto col figlio di un poliziotto.-
-Lo so, lo so,- disse il duca -tocca ora a me dar consistenza a questo racconto, che mi fa buon gioco. Ma debbo chiedervi un favore, che non vi costerà che una mezz'ora del vostro tempo: tutte le sere d'Opera, alle undici e mezzo andate nel vestibolo ad assistere all'uscita del bel mondo.

Avete ancora qualche volta qualche maniera provinciale, bisognerebbe liberarsene; d'altra parte non è male conoscere, almeno di vista, qualche persona altolocata presso cui posso un giorno darvi qualche missione. Passate all'ufficio dei biglietti a farvi riconoscere, è stato preso l'abbonamento per voi...-

giovedì 29 marzo 2012

Johann Zoffany autoritratto con condom


Johann Zoffany, Autoritratto
Leggendo un post su Art History News ho scoperto questo originale autoritratto di Zoffany.
Originale la composizione formale: il pittore, abbandonato tavolozza e pennelli, si sta vestendo con un saio da francescano.

Questo autoritratto si trova nella Galleria di Parma. Il pittore settecentesco di Francoforte, ma italiano nell'anima, ha inserito vari oggetti nel quadro. Tavolozza e pennelli li abbaiamo già citati, ma ciò che ci colpisce di più è la mensola che compare sulla destra del dipinto.
Si vedono bene alcuni oggetti devozionali come il rosario di legno che pende attaccato sotto la mensola.
Sopra la mensola, accanto ad un piccolo bicchiere e una bottiglia, nella migliore tradizione olandese-fiamminga, compare un teschio, anzi il teschio del "memento mori".

Ma cos'è quell'oggetto che pende a sinistra del rosario? A prima vista sembra un moderno preservativo!
Certo che per capire meglio se lo è o no, abbiamo ottenuto un ingrandimento, purtroppo di bassa qualità, ma pare veramente un antenato del preservativo attuale.
Guardando meglio si nota che gli oggetti a forma di condom sono due, uno sopra l'altro.

Autoritratto (part.)
Ovviamente il quadro va letto in maniera allegorica, ma quale? Ha veramente dei significati nascosti ( o palesi)?
La diffusione dell'iconologia, grande merito di Aby Warburg, si sta ritorcendo su se stessa? Se l'iconologia è nata per disambiguare (come dicono i semiologi) un testo iconografico, ha diffuso la possibilità di stravaganti supposizioni offerte come certe, specialmente in rete, ma anche presso il grande pubblico internazionale.

Il caso più eclatante di questa distorsione è Dan Brown che, con supponenza e verosimiglianza, introduce dati iconologici palesemente falsi e culturalmente pericolosi data la diffusione del suo romanzo.
Devo ammettere che io stesso spesso mi lascio incantare da queste letture "oltre", magari un po' azzardate, ma dato l'esiguo pubblico ho la speranza che certi voli pindarici della mia fantasia siano pressoché ignorati.

Ma torniamo al nostro Zoffany e al suo strano autoritratto. Ma prendiamo in particolare il soggetto che ci interessa cioè la "natura morta" che si trova a lato del pittore.
Esaminiamo gli oggetti partendo da quelli sopra la mensola. Un piccolo bicchiere e una bottiglia, un mazzo di carte e un teschio.
Sotto la mensola: un paio di contraccettivi maschili, un rosario di legno abbastanza semplice e una piccola riproduzione della "Venere di Urbino" di Tiziano. Si può capire qualcosa da questo assemblaggio di oggetti e di "eventuali" simboli?
Johann Zoffany, La Tribuna degli Uffizi
Intanto non si può che ammirare la perizia del pittore, è quasi una natura morta stile olandese, alla Frans Hals per capirci. Io noto una disposizione di abbastanza semplice interpretazione (forse troppo semplice?). Partendo dal bicchiere, che non è un vero bicchiere, ma uno di quelli che oggi chiamiamo "da rosolio" (ma chi ce l'ha più il rosolio in casa?).

Per me il bicchiere e la bottiglia vanno insieme, interpretati come un soggetto unico: un soggetto di carattere sacro, il Vinsanto e il suo bicchiere. Accanto un soggetto profano, le carte da gioco. Più a lato un teschio, il teschio dell'eremita del "Memento mori", un altro oggetto, o simbolo, sacro. Sotto la mensola l'esatto opposto, due condom, un rosario e la "Venere", profano-sacro-profano.
Questo riferimento alla Venere di Tiziano ci porta al più famoso quadro di Zoffany intitolato "La Tribuna degli Uffizi".
Questo quadro ritrae molti capolavori ancora oggi radunati nel museo fiorentino. Fra gli altri si riconoscono abbastanza bene Andrea del Sarto, Rubens, Raffaello, Correggio, Sustermans (il ritratto di Galileo), Carracci, Reni etc. Ma in primo piano spicca proprio la Venere di Urbino di Tiziano, come nell'autoritratto.

Cercando di seguire l'interpretazione dell'autoritratto di Zoffany, guardiamo adesso proprio il personaggio centrale. Il pittore si è ritratto mentre si sta mettendo (o togliendo?) un saio da frate francescano. Che significa?
Ha forse a che vedere con gli oggetti sulla mensola? Forse il pittore è legato ai preservativi, le carte e la Venere? E di conseguenza il saio sarebbe legato al vino (rosolio o Vinsanto che sia), il rosario e il teschio.
Johann Zoffany, Giocatori di carte
(The Dutton family)
Quindi sacro e profano misti ma con un ordine preciso che li alterna.

Ipotesi suggestiva, ma non più di tanto, allora prendiamo la versione iconologica più semplificata. Forse, come spesso succede, la più prossima alla realtà dello studio di un pittore. Insomma oggetti da studio pittorico: il teschio per i santi eremiti, il rosario per vari quadri devozionali etc., bottiglia bicchiere e carte per tele di genere.

Anche il teschio ritorna in un altro "Autoritratto" del pittore tedesco, insieme a nuovi oggetti riferiti al suo mestiere come una riproduzione di un manichino anatomico "spellato".
Ma in realtà Zoffany è un ritrattista della nobiltà europea, un pittore di teatro. Celebri i suoi ritratti degli attori shakespeariani del '700, in particolare inglesi come David Garrick, impegnati nella recita di varie opere, specialmente del poeta di Stradford on Avon.

Johann Zoffany, Autoritratto
Ma ci siamo scordati dei profilattici. Ma sono veramente ciò che sembrano? Il fatto che siano "aperti" è ovvio che in quel periodo il profilattico non era monouso.
Senza voler fare adesso una storia del contraccettivo, sappiamo che nel Castello inglese di Dudley fu scoperto il primo contraccettivo moderno del 1640.

Questo era fatto di budello d'agnello, quindi al tempo di Zoffany erano già stati inventati. Ciò che è divertente è comunque la loro presenza in un quadro di un pittore che non è certo celebre per le sue divertenti invenzioni.
Invece in questo caso pare un pittore originale e forse divertito dal nostro stupore.
Noi che siamo ancora legati ad una "pruderie" vittoriana che al tempo dell'Illuminismo non era contemplata.
Il secolo dei Lumi era anche quello dei Casanova, dei Lorenzo Da Ponte e gli altri seguaci del libertinismo fino al caso estremo, ma sempre contemporaneo di Zoffany, del Marchese D.A.F. de Sade.
Insomma un'altra visione della morale sessuale. Che male c'è allora nell'esibizione di un oggetto di uso frequente, tanto quanto il rosario o la bottiglia di rosolio?
Ma saranno veramente ciò che sembrano?

mercoledì 28 marzo 2012

Kurt Schwitters e il suo Edificio del Commercio

Kurt Schwitters, Collage
Fra i dadaisti più dadaisti del periodo del dadaismo, mi si scusi il bisticcio di parole, il più dadaista fu certamente Kurt Schwitters.
Kurt Schwitters non era un dadaista, non partecipò alla fondazione del movimento, ignorò il "Cabaret Voltaire" di Zurigo, eppure fu il più "dadaista dentro" di tutti.

Fu arruolato nel gruppo dall'entusiasmo di Hans Harp per i suoi lavori, anzi "Merzbild" come li chiamava lo stesso Schwitters.
Il pittore tedesco era di Hannover. Mentre gli altri gruppi dadaisti tedeschi si erano radunati a Colonia e a Berlino, Schwitters rimase un isolato nella sua città, non arruolò nessuno, almeno personalmente, per formare un gruppo dadaista

Schwitters era un solitario, preso come era dalla sua ricerca artistica personale, la sua identificazione con l'arte arrivò quasi alla follia dove non si distingueva più l'arte dalla vita.

Si dice che la parola "Merz"  sia una contrazione che deriva da "Kommerz" (commercio), "Schmerz" (paura) e il verbo "ausmerzen" (rifiutare). Schwitters  assembla gli oggetti "rifiutati" come un raccoglitore delle scorie del consumo: biglietti, vecchie foto, pezzi di vari materiali, i residui del commercio umano, ormai senza più una funzione precisa nella realtà.

Merzbild n. 46 (1921)

Un divertente aneddoto è quello che fu narrato da Hans Harp. Quando portò, per la prima volta, Schwitters a Parigi per incontrare i dadaisti francesi. Seduti ad un caffè sulla Senna d'improvviso André Breton chiede se tutti sentissero la puzza che lui sentiva.
Era Kurt Schwitters che stava raccogliendo, nella capitale francese, i componenti dei "Merzbild", i rifiuti urbani parigini. Ovviamente lo snobismo di Breton non poteva capire come Schwitters vivesse l'arte.
Dopo la frequentazione saltuaria dei dadaisti berlinesi e quelli di Colonia e la partecipazione alle Fiere Dada, Schwitters inizia la sua opera più impegnativa: il "Merzbau".

Questa grande opera, andata purtroppo distrutta in un bombardamento del 1943, è stata la prima istallazione della storia dell'arte moderna.
Kurt Schwitters iniziò a costruire intorno e dentro la propria casa, lasciando libero soltanto lo studio, una grossa opera mista di vari oggetti, travi, opere di artisti amici.
La prima "pietra" del Merzbau fu messa nel 1915.

Kurt Schwitters, Merzbau (1915-1936)
Il "Merzbau" (Bau = costruzione), è un vero e proprio monumento, un insieme di oggetti, principalmente in legno, s'inerpicano per la casa di Schwitters ad Hannover. Lentamente diventa il suo eremo, la quintessenza del "Merz", che esce fuori da qualunque supporto artistico e si fa vita. Il Merzbau è in continua costruzione, e come le opere effimere non avrà lunga vita.

Non potremmo più capire veramente di cosa si trattasse se non fossero rimaste delle vecchie foto in bianco e nero.
Di recente l'istallazione è stata ricostruita nel museo di Hannover.
Il Merzbau è l'opera più grande di tutto il periodo Dada (anzi era).
Le istallazioni odierne nascono, anche involontariamente, dal Merzbau ma non riescono a imitarne la monumentalità, né lo spirito.

L'istallazione contemporanea ha una vita effimera, in genere legata ad un solo museo o una mostra.
Il Merzbau invece è un assemblaggio continuo di opere che diventano parte integrante della casa (ma soprattutto della vita) di questo artista tedesco fuori dalle righe. Per Breton anche un po' "bordaline".
Mentre Hans Harp ne fece un suo modello, e forse per primo capì il dadaismo inconscio delle sue opere.
Marcel Duchamp, Orinatoio, 1917

Il celebre orinatoio di "R. Mutt" (ovvero Marcel Duchamp) è stato forse uno dei primi esempi di recupero "artistico" di un oggetto della quotidianità. E' bastato rovesciarlo per fargli perdere quello che Baudrillard chiamava  "valore d'uso" per trasformarlo in "valore simbolico" e da lì in un'opera d'arte.


Schwitters adotta lo stesso metodo, trasformando gli oggetti di uso quotidiano in oggetti artistici. Ma se Duchamp, nel caso dell'orinatoio, si limita a rovesciarlo, quindi a fargli perdere la sua funzione originale, Schwitters invece assembla gli oggetti, anche i più disparati, per distruggere la realtà quotidiana e trasformarla in "altro". La sua diventa una de/strutturazione della società dei consumi e dei suoi oggetti inutilizzati, o meglio non più utilizzabili nella loro funzione primigenia. La realtà in Schwitters si trasforma e si ri/struttura in una, cento, mille favolose opere d'arte.

martedì 27 marzo 2012

Foto inedita di Alessandro Manzoni?

Alessandro Duroni, Foto ritratto del Manzoni?
Coll. Folch de Cardona - Roma
Rovistando tra le vecchie cose alle volte si possono trovare sorprese, spesso pretese tali.
Fra la collezione di grandi fotografi italiani e stranieri della fine dell'800 ereditata qualche anno fa, mi è capitato di trovare una foto di Alessandro Duroni, celebre fotografo di Milano della fine del XIX secolo.

Duroni divenne celebre per le molte foto che fece ai personaggi famosi del suo tempo. Alcuni eroi del Risorgimento sono stati da lui immortalati, anche in più di una foto. Celeberrime le foto di Garibaldi, Vittorio Emanuele II e famiglia e tanti altri risorgimentali i cui volti sono giunti a noi proprio attraverso le foto di Alessandro Duroni.
Ma fra i personaggi immortalati, in gran parte in studio, manca il poeta del Risorgimento: Alessandro Manzoni.
Duroni, per quanto ne sapevamo fino ad oggi, non ritrasse mai lo scrittore dei "Promessi sposi".

Abbiamo comunque molte altre foto dello scrittore lombardo, quindi non è difficile fare confronti fra quella del supposto Manzoni di Duroni e gli altri ritratti fotografici del poeta.
Il fotografo Giulio Rossi ne fece un ritratto, ma quello che più ci interessa è quella di un fotografo anonimo che per la postura e l'espressione è incredibilmente simile alla nostra foto inedita.
Anonimo, Ritratto di Manzoni

Naturalmente servono dei riscontri fisiognomici, almeno credo, per attribuire il personaggio ritratto nella foto di Duroni ad Alessandro Manzoni.
Così ad occhio e croce pare che si tratti della stessa persona, o di un anonimo signore che era il sosia di Manzoni.
Il formato della foto è il classico "carta da visita" per ambedue i ritratti.

Ancora oggi i fotografi italiani della fine dell'800 non sono ancora assurti nell'olimpo dei grandi artisti ottocenteschi.
Al contrario, ad esempio in Francia, Nadar è ormai conosciuto anche dal grande pubblico soprattutto per i ritratti di scrittori e politici, francesi e non, dello stesso periodo di Duroni.
Nadar ci ha svelato i veri volti di Baudelaire, Georges Sand e un sacco di altri grandi del suo tempo.

Questa foto ci dà lo spunto per selezionare, in seguito anche altre opere dei fotografi italiani ottocenteschi o anche non italiani come il grande Alphonse Bernoud , il mio preferito.
Andrea Premi, Foto di Manzoni, Museo del Risorgimento
Mantova

Ma ritorniamo al presunto, o reale, ritratto di Manzoni del Duroni, e mettiamolo a confronto con altre foto del poeta di altri fotografi o di anonimi.
Decisamente impressionante il ritratto fotografico di Andrea Premi che si trova al "Museo del Risorgimento" di Mantova , sembra addirittura la nostra foto di Duroni, ma tagliata a mezzo busto, questa potrebbe essere la conferma della nostra attribuzione.

Prendetelo come mio omaggio, tardivo, al 150° anniversario della formazione dello Stato italiano.

venerdì 23 marzo 2012

Il sassofono classico di Florent Schmitt

Florent Schmitt (1900)
La  mia banda suona il rock, diceva una canzone di Ivano Fossati di un po' di tempo fa.
Nel caso di Florent Schmitt si potrebbe parafrasare dicendo: la mia orchestra suona il sax.
Le storie dei due, lo strumento e il musicista, corrono parallele, finché s'incontrano nell'opera  n.66 di Florent Schmitt dal titolo "Légende" per pianoforte e sassofono contralto nell'anno 1916.

Non che prima non fossero stati fatti esperimenti in questo senso, il primo dei quali già nel secolo precedente, Berlioz, amico di Adolphe Sax, scrisse un concerto "Hymne sacrée" (1844), oggi perduto, con l'introduzione del nuovo strumento di Sax, brevettato soltanto nel 1841.
Poi ci furono assidui frequentatori dello strumento, come Singelée, ottocenteschi, ma ancora intrisi di romanticismo.

Con "Légende" il sassofono diventa primo attore di un concerto che lo vede comprimario fino ad un certo punto, poi spicca il volo.
Ancora più difficile e azzardato l'inserimento, in una tessitura pianistica quasi debussyana, del contralto.
E' noto che il sassofono contralto è considerato uno strumento dal suono freddo, rispetto al soprano e al tenore, molto amato dai jazzisti. Grande sassofonista di contralto fu Charlie Parker tanto per fare un esempio illustre.

Dopo "Légende", che è il primo vero pezzo "moderno" con l'inserimento del sax, altri proseguirono in questa strada, anche se il sassofono non è ancora considerato un elemento orchestrale se non per occasionali concerti di autori per lo più contemporanei.
Ma anche la storia di Florent Schmitt è interessante.
Longevo musicista dei tempi in cui in Francia nasceva l'Impressionismo musicale, Debussy, Satie furono suoi contemporanei. Ma il musicista a cui fu più vicino fu forse Maurice Ravel, suo compagno di studi al conservatorio parigino.
René Piot, Locandina della Tragedia di Salomé
Studiò con Jules Massenet e Gabriel Fauré. Ma dopo una serie di viaggi la sua musica acquisì l'influenza di più di una scuola.
A Vienna intessè contatti con Schoemberg e in Germania subì forte l'influenza dei tardoromantici, nelle sue sinfonie è forte l'influsso di Richard Strauss ma anche di Arnold Schoemberg delle "Verklaerkte Nacht", o di certe composizioni per archi di Alban Berg.

Collaborò con Diaghilev nell'occasione della tournée  dei Balletti Russi in Francia. Il corpo di ballo mise in scena nel 1913 il suo poema "La tragedia di Salomè", tra l'altro dedicato ad Igor Stravinskij nella cui opera si possono sentire delle consonanze con quella di Schmitt . La protagonista fu Ida Rubinstein nella sua nuova veste di ballerina classica.
La domanda da porsi è: perché questo musicista è praticamente un semisconosciuto al grande pubblico? Eppure è lo stesso che apprezza i suoi contemporanei Ravel, Debussy, Schoemberg, Fauré etc. etc. facendoli entrare nell'olimpo dei grandi della musica, mentre di Schmitt si conosce a stento, e spesso come una curiosità musicale, il suo "Quartetto per sassofoni" del 1941.

Ebbene nel 1933 Florent Schmitt non nascose le sue simpatie naziste, antisemite e collaborò con il regime di Vichy. Dopo la guerra il suo nome sparì dalle sale di concerto, e fino al 1947 non fu più permessa l'esecuzione in pubblico della musica di Florent Schmitt.
Se Schmitt è caduto nel dimenticatoio, altri artisti e letterati altrettanto compromessi, espiarono un piccolo purgatorio ma poi furono riammessi alla fruizione del grande pubblico come Céline, Heidegger etc.
Florent Schmitt tentò di giustificare il suo comportamento, ma era, ed è, ingiustificabile.
Serge Sudeikin, La Tragedia di Salomè, costume di scena (1913)

Ciò non toglie che la sua opera sia modernissima, più espressionista che impressionista, la sua musica focosa ricorda Wagner, ma misto in salsa dodecafonica, anche se non così estrema come negli austriaci, rivisitato dal neoclassicismo di Stravinskij.
Ma in fondo Schmitt era un solitario, come stile musicale, e dalla sua musica tracima un senso di modernità legata all'antica radice tardoromantica.

Schmitt scomparve nel 1958 senza riabilitazione e la sua musica è conosciuta oggi da pochi specialisti e musicofili curiosi.

Il suo pezzo più interessante, e che lo impose per la prima volta all'attenzione generale fu un corale: "Psaume XLVII", un delirio per coro e orchestra.del 1904, che i più coraggiosi possono ascoltare in questi due video:



E qui la seconda parte

domenica 18 marzo 2012

Piazza della Signoria di rosso vestita

Anonimo XV secolo, Esecuzione di Savonarola
Piazza della Signoria a Firenze è fra le piazze principali d'Italia una di quelle dall'architettura più strana.

In effetti non è nemmeno una vera piazza ma un insieme di due (tre se contiamo il Piazzale degli Uffizi) piazze contigue.
Il perché è noto agli storici. Dopo la vittoria dei Guelfi, nel 1268, le case e le torri dei Ghibellini che si trovavano nei pressi di quello che diventerà il Palazzo dei Signori e che erano ben 36, furono demolite creando uno spazio artificiale.
Questo fu forse il primo intervento urbanistico su grande scala dopo la fondazione di Florentia nel 59 a.C..

Al tempo della colonia romana lo spazio della futura piazza era sicuramente edificato, e dominato dalla facciata e i "fornices" del teatro che occupava tutta la piazza sottostante. La cancellazione radicale di una parte della città medievale sovrapposta a quella romana aveva inventato di sana pianta una nuova piazza. Questo spazio divenne parte integrante di quella già esistente davanti al Palazzo Vecchio, dandogli così una curiosa forma ad "L".

Questo spazio inusuale divenne il banco di prova per i pittori in cerca di esperienze paesaggistiche urbane che mettessero in luce la loro perizia prospettica. Una vera prova del nove per il pittore prospettico di professione.
Ma mai né Paolo Uccello (il vero fanatico della prospettiva) né altri campioni del genere come Masaccio o Piero della Francesca, per quanto ne sappiamo, si cimentarono nella visione prospettica della piazza più importante di Firenze.

Fu invece un, ancora anonimo, pittore, sul quale a mio avviso l'influenza dell'opera di Paolo Uccello non è sconosciuta, che fece la prima prova (dopo il 1498) di una veduta prospettica della piazza.
Naturalmente sulla tela non mancano gli aggiustamenti per dare una visione che corrisponda ai canoni della pittura prospettica. In primis l'allargamento della strada, oggi chiamata Borgo de' Greci, che in realtà è, ed era, molto più stretta e non così perpendicolare come sulla tela, della quale costituisce il punto di fuga.
Piero della Francesca, Flagellazione

Ma al di là di questa digressione storico-urbanistica, ci interessa la pavimentazione della piazza al tempo dell'esecuzione del probo, ma anche un po' fascista, Fra Girolamo Savonarola da Ferrara. Il tema è più funzionale alla perizia del pittore di rappresentare l'intera piazza che per l'avvenimento rappresentato. Ma questo ci offre uno spunto per scoprire la data del dipinto. Il termine ante quem è il 23 maggio 1498 giorno dell'esecuzione del frate.
Cosa vediamo in basso? Il pavimento della piazza è rosso con grossi quadrati dai contorni bianchi. Pensandoci bene anche in altre opere come nella "Flagellazione" di Piero della Francesca compare lo stesso motivo nella piazza antistante il palazzo dove avviene l'episodio evangelico, infatti il pavimento del Tempio segue un altro motivo dividendo con una parete invisibile, l'interno dall'esterno dell'edificio.
Francesco Granacci, Ritratto di gentiluomo

Naturalmente quello della Flagellazione è costruito su una visione irreale del luogo in cui si svolge l'azione e il pavimento rosso con quadrati bianchi è funzionale alla visione prospettica del quadro.
Dunque una Gerusalemme "fantastica" con un motivo pavimentale atto a mettere in risalto la bravura del pittore di Borgo San Sepolcro.
Partendo da questo dato, e vista l'impressionante similitudine fra le due tecniche, si deve pensare che il pittore anonimo della veduta di Firenze usa lo stesso escamotage per ottenere lo stesso risultato: una scatola prospettica.
Ma tornando alla pavimentazione, il cotto di Piero della Francesca ornava veramente la piazza dei signori di Firenze?
Per alcuni è verosimile.
Altri dipinti e affreschi lo testimonierebbero, come quello del "Ritratto di Gentiluomo" di Francesco Granacci.
Ma anche il pittore fiorentino aggiustò un po' la via di fuga allargando quello che Vasari farà diventare il Piazzale degli Uffizi.
Oppure su un'altra veduta di Anonimo del '500 si vede ancora la piazza con il pavimento in cotto. Ma osservando bene in questa veduta la scatola prospettica si è ridisegnata, magari perché nel frattempo era stato inserita la Fontana del Nettuno.


Anonimo XVI secolo, Festa degli omaggi
Venendo ai nostri giorni, quel simpaticone del "jovane sindaho" Renzi ha riproposto la, già bocciata negli anni '80, brillante idea di ricostruire la piazza "com'era" con bei lastricati di cotto dell'Impruneta, contornati (probabilmente) da listelle di marmo bianco (magari di Carrara).

Matteo Renzi è il nuovo Petrolini del "Nerone", ha deciso che ricostruirà Firenze "più bella e più superba che prìa"..."Bravo!"..."Grazie!".

Perché fermare un monumento nel tempo come la pavimentazione di una piazza storica e trasformarla in qualcosa che forse era, ma non ha più ragione di essere, visto che da Savonarola in poi si sono aggiunti dei monumenti in piazza?
La grossa fontana dell'Ammannati del Nettuno (conosciuto a Firenze come" i'Bbiancone") ostruisce quello che era il punto di fuga (inventato) del quadro dell'Anonimo. Oggi non siamo più di fronte ad una possibile scatola prospettica, piazza della Signoria è una piazza che si è costruita e distrutta da sola e poi nuovamente ricostruita.

Matteo Renzi, Imperatore di Firenze
Già negli anni '80 era stata fatta una proposta simile, poi fu, grazie a dio, bocciata e fu restaurato il lastricato in sanpietrini messo là dai Lorena nel '700. Ho letto di recente che la proposta è stata gradita da Vittorio Sgarbi, un motivo in più per non appoggiarla.

Ma non è lo stesso Matteo Renzi che voleva fare, finalmente dopo secoli, la facciata della Basilica di San Lorenzo? Il poverino non sta bene. Dopo lo scempio del Ghetto durante il "Risanamento" sabaudo, il piano "Poggi" per l'abbattimento delle mura cinquecentesche, quello di parte del quartiere medievale di Santa Croce durante il fascismo e l'abbattimento di 5 ponti su 6 da parte dei tedeschi, la città ha dovuto troppo spesso curare le sue ferite.
Forse a questa povera città andrebbe dato un po' di respiro. Una piazza Signoria in cotto rosso è come la facciata ottocentesca del Duomo: la rovina della parte più importante di questo monumento dopo la cupola e il campanile.
Giovanni  Stradano, Il Duomo prima della "cura"

La cura ha decisamente ucciso il malato, nel caso della facciata del Duomo di Emilio De Fabris iniziata nel 1876. Ma Firenze purtroppo in quel periodo andò incontro a sorti avverse per sua conservazione. Gli ultimi sovrani toscani di nascita avevano lasciato il posto a degli stranieri. Gente strana che balbettava a fatica la lingua del padre Dante.
Il peggio era che questi piemontesi avessero scelto per residenza proprio Firenze.

Arruolarono i distruttori della città fra gli urbanisti celebri del tempo. Giuseppe Poggi fu il nostro Valadier. Purtroppo tra i due c'era un abisso. Se Valadier è riuscito a non distruggere l'armonia di Roma, pur con grossi interventi come a Piazza del Popolo, il più modesto Poggi ha usato la ruspa per costruire la sua visione di una Parigi in scala, percorsa da grandi boulevard, iniziando con l'abbattimento delle mura cinquecentesche.

Duomo dopo la "cura"
Anche un cittadino qualunque avrebbe capito se c'è un reale bisogno di questi viali, perché non costruirli lungo le mura invece che abbattendo le stesse? Ci sono tante città con le mura integre affiancate da viali di circonvallazione (Lucca ad es.).

Se sono contrario alle sovrapposizioni tardive, sono tutt'altro che favorevole agli smembramenti para-filologici. Peggio che peggio i falsi storici.
Una bella piazza della Signoria in cotto dell'Impruneta, praticamente una versione reale delle pavimentazioni prospettiche di tanti pittori del '400 e '500, praticamente un palcoscenico all'aperto e un cazzotto in un occhio a chi ama il "naturale" evolversi di una piazza e una grossa offesa alla nostra intelligenza.
 Un po' come se oggi volessimo ricostruire le mura "del Cinquecento" della città. Ma non raccontatelo a Renzi, magari ci fa un pensierino....perché risorga più bella e più superba che prìa.