Arlecchino cuoco |
Datati intorno al 1750 (E.A. Maser 1968) questo ciclo ci lascia perplessi per la sua originalità e il numero consistente di soggetti e varianti degli stessi.
Durante il tempo queste tele sono state variamente interpretate e ci hanno comunque proposto molti dubbi, il primo dei quali è: perché e per chi sono state dipinte?
Il dubbio è proprio questo: perché un pittore "serio", un frescante di grande successo, stilisticamente alla pari con i grandi toscani della sua epoca come Vincenzo Meucci e il Soderini stesso, ha dipinto quadri così originali che, fino a qualche tempo fa, non erano nemmeno presi in considerazione dalla critica artistica?
Arlecchino gran signore |
Una risposta certa non esiste, ma esistono comunque molte ipotesi che si sono accavallate dagli anni '50 (del Novecento) ad oggi. Probabilmente tutte valide e nessuna certa.
Colui che ne parlò per primo, e li pose all'evidenza del mondo storico-artistico, in tempi recenti, fu il prof. Edward A. Maser, dell'Università di Chicago, nel 1956. A lui si debbono gli esami più importanti, almeno a livello stilistico e iconografico che culminarono nella prima monografia del pittore fiorentino (1968).
Anche Maser si pose la domanda: chi li aveva commissionati e perché? Maser dette un'incerta risposta attribuendoli ad una visita di Goldoni a Firenze nel periodo della loro composizione e la conoscenza che s'instaurò tra il commediografo veneziano e l'erudito Anton Francesco Gori per la comune frequentazione delle Accademie letterarie fiorentine del '700.
Anton Francesco Gori era una figura d'intellettuale molto stimato a Firenze nel XVIII secolo, ma era anche cugino del pittore. Di Gori si disse anche che fu il maggior etruscologo del suo tempo e che, addirittura, avesse scoperto il mistero della lingua etrusca e la traduzione della stessa. Naturalmente sappiamo che non arrivò a tanto e la lingua degli etruschi è per la maggiorparte ancora intraducibile.
Ma Maser portò anche un documento a sostegno della sua tesi: sia il Gori che il Ferretti partecipavano alla vita teatrale della città attraverso la frequentazione dell'Accademia del Vangelista, nota per le sue rappresentazioni teatrali (avevano un piccolo teatro nel convento dove si riunivano e facevano spettacoli di rappresentazioni sacre ma anche di Commedie Ridicolose). La "Ridicolosa" è un genere teatrale identico alla Commedia dell'Arte, soltanto che era recitato da nobili dilettanti.
Arlecchino pittore |
Il documento che certifica la presenza di Ferretti al Vangelista è tratto dai "Diarii" di Giovan Battista Fagiuoli che lo cita almeno due volte come "Ferretti pictor" presente, insieme al cugino, alle rappresentazioni accademiche.
Il numero delle tele arlecchinesche dipinte dal Ferretti è ancora incerto, un articolo di Franco Morettini (DEA 2000) riporta tutti i soggetti dipinti sparsi per i vari musei italiani ed esteri. Ma seppure sappiamo i soggetti non conosciamo ancora il numero esatto dei quadri dipinti. Molte tele furono più volte ripetute, alle volte con gli stessi soggetti e gli stessi formati, come nel caso della collezione dei cosiddetti "Travestimenti di Arlecchino" (titolo attribuito dal Maser) che si trovano sia al Museo John & Mable Ringling di Sarasota (Florida) che nella Collezione della Cassa di Risparmio di Firenze. L'unica differenza è nel numero. A Sarasota compare un "Pulcinella con maccheroni" (sfuggito nel saggio di Maser), non presente a Firenze, e d'altro canto a Firenze tre soggetti non presenti a Sarasota: "La famiglia di Arlecchino", "Arlecchino gran signore" e "Arlecchino bacchettone" (che Maser riteneva perduto).
Ma adesso dobbiamo far entrare un altro attore nell'intricata storia degli arlecchini di Ferretti, anzi un attore e un regista.
Hermann Thimig, Arlecchino |
Nei primi anni del secolo da poco passato sappiamo che i quadri di Ferretti, quelli poi finiti nel Museo di Sarasota, erano in possesso di un celebre regista teatrale, forse il più celebre del Novecento: Max Reinhardt.
Il padrone del sistema teatrale di Berlino fino agli anni '30, li conservava nella sua grande casa austriaca: il Castello di Leopoldskron a Salisburgo.
L'attore invece è Hermann Thimig, cognato di Reinhardt, attore che presentò sulle scene il suo Arlecchino nella trasposizione di Reinhardt del goldoniano "Il servitor di due padroni" nel 1924.
E' difficile pensare che Reinhardt non abbia tratto ispirazione dai quadri in suo possesso per i costumi della commedia settecentesca, infatti le foto di scena ci danno ragione, il costume di Arlecchino di Thimig è quasi identico a quello dell'Arlecchino ferrettiano.
Si potrà obbiettare che in fondo il costume di Arlecchino è stato sempre uguale nei secoli, ma non è vero, soprattutto se prendiamo come esempio tutte le rappresentazioni grafiche e pittoriche dal '500 al '700. L'Arlecchino di Tristano Martinelli di fine XVI secolo aveva un costume bianco con rade toppe colorate e cucite, quello dell'Arlecchino di Gillot (XVII sec.) era ancora largo e non aderente al corpo e quello di Watteau (XVIII sec.) con losanghe molto strette. Sono molto diversi dal tipo arlecchinesco di Ferretti.
Marco Marcola, Arlecchino e Colombina |
Ma torniamo a Ferretti. Come abbiamo detto ci sono molte varianti degli arlecchini, ma non essendo il pittore fiorentino molto conosciuto fuori dalla Toscana e ingiustamente accantonato come minore dalla storiografia artistica. Per questo motivo spesso è stato confuso con altri pittori del suo secolo. Visto che il soggetto delle maschere era usato spesso di ambito veneto, fu spesso attribuito a pittori di quest'area.
Il caso più eclatante sono i quattro quadri arlecchineschi di Ferretti dei Musei Civici di Trieste: "Arlecchino servo furbo", "Arlecchino aggredito", "Arlecchino studioso" e "La famiglia di Arlecchino" che sono stati attribuiti da Giuseppe De Logu al veronese Marco Marcola (Verona 1740-1793).
Niente di più falso, i soggetti e l'iconografia riportano agli stessi identici quadri di Ferretti di Firenze e Sarasota, poi basta fare un confronto fra l'Arlecchino di Marcola e quello di Ferretti per avere la conferma.
Niente di più falso, i soggetti e l'iconografia riportano agli stessi identici quadri di Ferretti di Firenze e Sarasota, poi basta fare un confronto fra l'Arlecchino di Marcola e quello di Ferretti per avere la conferma.
Sono decisamente due mani diverse e incompatibili fra loro.
L'Arlecchino di Marcola è una marionetta al confronto con quello di Giovanni Domenico Ferretti. La differenza è palese.
Francesco Bartolozzi, Arlecchino bacchettone |
Bisogna tenere conto che ultimamente, dopo la riscoperta degli arlecchini fiorentini, molti, forse troppi imitatori settecenteschi hanno inflazionato il tema ed improvvisamente sono stati riscoperti arlecchini ferrettiani di dubbia attribuzione. Forse questa proliferazione di imitatori dei soggetti di Ferretti son stati causati dall'esportazione in Veneto di quattro dei suoi soggetti incisi presso la bottega veneziana di Ioseph Wagner dal più noto allievo di Ferretti: Francesco Bartolozzi.
Le sue incisioni evidentemente fecero colpo sui veneti, da sempre legati ai soggetti della Commedia dell'Arte, un nome per tutti: Giandomenico Tiepolo.
Naturalmente non finisce qui l'analisi su questi quadri. Siamo rimasti a chi li ha commissionati. Ovviamente né Goldoni e forse nemmeno l'Accademia del Vangelista per ornare la sala del suo teatrino (l'ultima ipotesi non è da scartare ma mancano conferme documentarie).
Recentemente (F. Sottili in "Paragone" 2008) un articolo ha proposto una novità: cioè che le Arlecchinate siano state dipinte per un unico committente: la famiglia Sansedoni di Siena. Ferretti aveva già affrescato, con temi mitologici, il palazzo di famiglia e Orazio e Giovanni Sansedoni pare fossero amanti del teatro. Ma per il momento lasciamo cadere questa interessante ipotesi. Presto ci dedicheremo a confrontare, in un altro articoletto le differenze e similitudini fra opere attribuite al Ferretti nei vari musei teatrali italiani.
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