giovedì 26 aprile 2012

Il Savoia disse: "Delenda Florentia"

"L'ANTICO CENTRO DELLA CITTA'
DA SECOLARE SQUALLORE
A VITA NUOVA RESTITUITO"
A Firenze nel corso dei secoli, sono stati costruiti vari archi di trionfo. Probabilmente sin dal tempo della Florentia romana, anche se non abbiamo testimonianze archeologiche. Sicuramente il Rinascimento costruì molti archi trionfali, soprattutto nel periodo mediceo, ma la maggioranza di questi erano apparati effimeri. Quasi che i Medici presagissero il loro passaggio nella città, ma non come ultima dinastia. Chissà comunque non ci sono rimasti archi del loro passaggio, ma in compenso hanno arredato la città con ben altri monumenti.

Il primo proprio e vero arco trionfale fiorentino è quello che fu costruito per l'arrivo del nuovo granduca Francesco Stefano, il primo dei Lorena salito al trono del Granducato nel 1737.
Un tempo l'arco troneggiava davanti alla porta medievale di San Gallo. Dopo l'abbattimento delle mura cinquecentesche intorno alla porta, l'arco non ha più ragione d'essere, si trova al centro di una piazza senza un vero perché urbanistico.

Ma chi ha compiuto questo obbrobrio? E perché?
Forse la presenza di un ulteriore arco trionfale, quello dei Savoia che incornicia la piazza, oggi detta della Repubblica, dedicata al re galantuomo, ma che con Firenze fu tutt'altro che tale, ci fornisce la spiegazione.
Anche la piazza dedicata a Vittorio Emanuele non aveva un senso urbanistico preciso. Aveva soltanto distrutto l'ex Ghetto, ma anche le ultime vestigia della prima urbanizzazione romana distruggendo l'incrocio tra il cardo e il decumano maximo.
Ghetto, Torre degli Armieri

L'arrivo della sciagura si compie nel 1856 quando disgrazia vuole che Firenze venga eletta come capitale, transitoria, del Regno d'Italia.
Firenze ebbe uno stravolgimento come mai era più successo dopo l'arrivo dei Lanzichenecchi nel 1530. Ma almeno loro si limitarono a saccheggiare la città. I Savoia, o chi per loro, si lasciarono dietro molte vittime, soprattutto chiese medievali.
Firenze, come moltissime città italiane, è un microcosmo, un ambiente dall'equilibrio precario, quasi un'oasi.
Alla Florentia romana si è sovrapposta la medievale, accanto alla medievale è nata quella rinascimentale.
Nessun secolo posteriore, nessuno stile né il Barocco né il Rococò, ha contaminato le linee pure albertiane e brunelleschiane della città. Certo bisogna anche pensare che dopo più di un secolo ormai i Lorena erano fiorentini, questi nuovi padroni invece no, ed a Firenze c'erano di passaggio. Purtroppo non è stato un passaggio indolore. La massima lasciata sull'arco della vergogna recita: "L'antico centro della città / Da secolare squallore / A nuova vita restituito".
Secolare squallore?
Certo che questi regnanti che venivano da squallide borgate di montagna, come potevano apprezzare il "secolare squallore" del Ghetto e del Mercato Vecchio? Loro ancora vivevano nel Medioevo.
Purtroppo l'abuso durò molto tempo, anche troppo e dopo il trasferimento della capitale a Roma, nel 1871, continuò per tutto il periodo umbertino.
Giovanni Stradano, Piazza del Mercato Vecchio
 (seconda metà del XVI secolo)
Una parte della città scomparve veramente, per lasciare posto a giganteschi, quanto inutili, loggiati sproporzionati rispetto all'arredamento urbano delle viuzze medievali che costeggiano l'ex ghetto fiorentino.
Per ritrovare un simile scempio bisogna aspettare la distruzione del Borgo della Spina a Roma, cancellato per farne un brutto monumentale stradone che distrusse anche il senso scenografico del Colonnato di Bernini: via della Conciliazione e vogliamo parlare di via dei Fori Imperiali?
Ma quel poveretto era un maestro di scuola che ne capiva di urbanistica? Ma i Savoia non hanno dimostrato questa grande preparazione in questo senso e invece di usare la livella, per nuove realtà o cambiamenti urbanistici, hanno usato la ruspa a Firenze. E tutto ciò per restituire vita all'antico centro e spazzando via il secolare squallore.
Sicuramente il Ghetto fiorentino non era meglio degli altri ghetti di altre città italiane. I fiorentini di religione israelita si erano, per secoli, stretti intorno a questo labirinto di viuzze. Ma l'esplosione demografica aveva inventato un ghetto dalla conformazione particolare. Per la prima volta le case sono costrette ad andare in verticale anziché in orizzontale. Gli ebrei fiorentini che scoppiavano dentro il ghetto e cominciarono a costruire dei piccoli grattacieli.
Fabio Borbottoni, Ghetto (fine XIX secolo)

In poco tempo la città si trasforma e il ghetto, col suo mercato, la Colonna dell'Abbondanza (che segnava il centro dell'antico "castrum" da cui si è evoluta la città) diventano paesaggi urbani e popolari, pieni di persone come nelle tele di Telemaco Signorini, o paesaggi quasi metafisici come nelle tele di Fabio Borbottoni.

Grazie ai pittori e le foto degli Alinari, possiamo respirare ancora l'aria popolare del centro medievale della città e gustarsi la visione delle secolari.stratificazioni della città di Dante.
Poi sono arrivati i Savoia e hanno trattato la città come un banco di prova per l'inserimento delle loro novità urbanistiche. Insomma hanno preso Cartagine e l'hanno distrutta per ricostruire una nuova Cartagine a loro immagine e somiglianza: cioè brutta. Anche se Firenze è difficile diventi brutta, neanche i barbari piemontesi ci sono veramente riusciti, ma diciamo che ce l'hanno messa tutta.



domenica 22 aprile 2012

I benandanti di Ruzante

Leonardo da Vinci, Benandante
I Benandanti erano una specie di stregoni benigni che "alle tempora" si scontravano con i loro nemici giurati: gli stregoni malvagi devoti a Satana. A seconda della fazione vincente il raccolto sarebbe stato abbondante o scarso.
Questo è in due parole la rozza descrizione di un fenomeno molto più complesso e pieno di simbologie, prevalentemente riferite a "oscuri" riti agrari, molto prossimi a quelli pagani. Nelle campagne, i cosiddetti "pagus" (da cui il termine pagano), questi riti erano rimasti a testimonianza di una religione quasi animista, più che pagana, ancora presente nelle campagne e motivo di roghi, specialmente di streghe, durante il periodo dell'Inquisizione. Probabilmente la cristianizzazione del rito della battaglia per il raccolto dei benandanti è avvenuta in seguito ed è una contaminazione di un rito più antico

"Quando il racolto vien buono, cioè della robba purasai, et bella, quell'anno è che li benandanti habbiam vinto; ma quando li strigoni vincono, il raccolto va male"
(Testimonianza di un benandante all'Inquisizione)

Il volume di Carlo Ginzburg "I benandanti" spiega con abbondanza di particolari  questa usanza affidandosi alle carte di quel processo dell'Inquisizione, del '600, dove vengono, forse per la prima volta, ascoltati alcuni abitanti delle campagne friulane dediti a questo rito periodico: i benandanti appunto.
Naturalmente la Chiesa Cattolica, attraverso la "longa manus" degli inquisitori, non può tollerare un rito che più che cristiano pare il paravento cristianizzato di un vero e proprio sabba. Ed è questo che cercano di far confessare, anche attraverso la tortura, ai cosiddetti benandanti. Il processo non dà i risultati previsti e, probabilmente anche dopo la condanna "teologica" del fenomeno e degli inquisiti, questo rito è difficile sia totalmente scomparso.
Pieter Bruegel, Combattimento tra Carnevale e Quaresima

Una delle caratteristiche del benandante è la sua arma inconsueta: un ramo di finocchio. Mentre lo stregone suo nemico impugna una canna di sorgo.
Qualunque antropologo potrebbe spiegarci chiaramente che non abbiamo a che fare con vere e proprie armi, ma con delle "armi magiche", così come lo scontro tra le due fazioni: bene contro male, proviene o è alla base di quelle rituali battaglie che avvenivano ad esempio alla fine del carnevale, la cui morte viene decretata dall'arrivo della quaresima.
Anche questo è stato un rito molto diffuso, la tela mirabolante di Pieter Bruegel ne è la testimonianza migliore. Anche le armi con le quali si confrontano i due personaggi sono armi "simboliche" più che armi vere e proprie. Uno spiedo per Carnevale e una pala da fornaio per la Quaresima.
Ma questa battaglia, con un destino già segnato (ma non sempre), era invece tollerata dalla Chiesa.
Così come la stessa chiesa tollerava, ed anzi vi partecipava in prima persona, a quel rito analogo che ancora oggi si celebra a Firenze, cioè lo "Scoppio del carro".
Anche questo rito "paganeggiante" dava, a seconda di quanti piani del "Brindellone", il nome che i fiorentini usano per indicare il carro, scoppiano. Se sono pochi il raccolto non sarà granché, se scoppia tutto il carro ci sarà abbondanza.
Il feneculum vulgaris (Antico erbario)

Ma torniamo alle armi magiche delle due fazioni in lotta nel rito delle "tempora" friulano. E soffermiamoci in particolare sull'arma del benandante: il finocchio.
Il finocchio è una pianta officinale, per questo motivo forse viene considerata un ausilio per l'uomo contro il male.
Fra i vari usi viene consigliato, sin dal tempo dei greci, contro i morsi dei serpenti e gli scorpioni.
Con questa funzione medicinale lo si ritrova in Dioscoride: "De materia medica" (I secolo d.C.). Ma colui che canta le lodi e le doti farmacologiche del finocchio è Plinio il Vecchio nella sua "Historia naturalis", sempre nel primo secolo:

"Da quello coltivato [il finocchio] si ricavano medicine contro il morso degli scorpioni e dei serpenti, bevendone il seme nel vino"
(Historia naturalis, XX, 96)

Quindi il finocchio è una pianta benefica, anche se non è detto che questa sia la sua reale funzione nella battaglia fra i due principi antitetici rappresentati dalle due fazioni in lotta per il buon esito del raccolto.
Ma lo stesso finocchio veniva usato nei roghi delle streghe, dove ne era gettato in abbondanza. La storia ci tramanda che fosse usato per attenuare l'odore della carne bruciata, ma al di là di questa spiegazione razionale, a mio avviso anche in questo caso la simbologia di esorcizzazione del male non è peregrina.
Angelo Beolco, drammaturgo cinquecentesco presso la corte padovana di Alvise Cornaro, scrisse una quantità di commedie cosiddette "alla villanesca"  cioè che mettevano in scena le avventure, tragicomiche di un contadino chiamato: Ruzante.
Palcoscenico della "Betìa" (dal manoscritto di Ruzante)

In seguito anche lo stesso Beolco prese il nome dal suo personaggio e fu chiamato Ruzante (o Ruzzante).
Nelle sue commedie spesso i contadini padovani si richiamano alle mitologie agrarie, in una di queste intitolata "La Betìa", Nale (il Ruzante della situazione) perpetra una beffa alla moglie che lo crede morto nella quale fa finta di essere tornato da lei sotto forma di spirito.
Tamìa, la moglie, è curiosa di sapere com'è fatto l'aldilà e chiede a quello che crede lo spirito di Nale delucidazioni.
E qui inizia una vera e propria favola, Nale lascia andare la sua fantasia e l'inferno è descritto come nelle più sanguinose raffigurazioni in affresco o mosaico del Medioevo.
Ma la base del racconto di Ruzante deriva dalla fiaba popolare, quella che Vladimir Propp ha delineato così bene nei suo saggi: "La morfologia della fiaba" e il successivo "Radici storiche dei racconti di fate".
Il racconto di Nale inizia come una classica fiaba, per arrivare nell'aldilà, secondo Ruzante, occorrono

"Trenta megiara de megiara de mì (trenta migliaia di migliaia di miglia)"

Propp invece ci ricorda come decine e decine di fiabe iniziano con: "in un paese lontano lontano" (o anche in un regno o in una terra) la cui lontananza non è misurabile.
Ma anche altre fonti letterarie, oltre il Ruzante, usano questa formula fiabesca, ad esempio Giovanni Boccaccio nel "Decameron". Nella terza novella dell'ottava giornata Calandrino diventa protagonista della beffa perpetrata ai suoi danni nel racconto dell' "Elitropia", la pietra nera dalle magiche virtù che si trova nella contrada di Bengodi nel paese dei Baschi.
Alla domanda di Calandrino: "e quante miglia ci ha?", Maso del Saggio risponde come nelle fiabe popolari:

"Haccene più di millanta, che tutta notte canta"
(Dec., VIII, 3).
Dante, Divina Commedia - La selva oscura
(ms. British Library 1340 circa)

Ovviamente anche in Propp l'eroe della fiaba finisce nell'aldilà passando attraverso varie prove, con aiutanti e armi magiche. Come nei benandanti le fronde di finocchio servono per combattere il male, così l'eroe delle fiabe sconfigge, con l'aiuto di "un mezzo magico", draghi e nemici di ogni genere, ma soltanto dopo aver attraversato il confine tra la vita e la morte.
E come per un eroe della fiaba, anche l'arrivo di Nale nel paese "lontano lontano" è stato velocissimo. Narra infatti di esserci arrivato "in t'un bater d'ogio".
Ma questa velocità non è benefica per il personaggio di Ruzante. Infatti si lamenta che nella rapidità con la quale si arriva all'inferno:

"Una festuga de fenogio portare no se pò, se no el so fiò, che è l'anema che no muore"
(Ruzante, Betia, V, 689-92)

Ed è qui che la cosa si fa interessante, perché l'anima di Nale, tanta è la velocità del passaggio tra il nostro mondo di mortali e l'altro mondo che non riesce neanche a strappare un ramo di finocchio.
Forse per mantenere il suo rapporto con il mondo reale, colui che arriva nel mondo dei morti, ha una connessione particolare con il mondo vegetale. Chi non ricorda la "selva oscura" di Dante?
Ma già in precedenza, eroi greci e romani dei poemi epici, avevano avuto la medesima esperienza, a partire dai due più famosi come Enea e Ulisse.
Quindi il passaggio tra il mondo dei vivi e quello dei morti avviene attraverso un bosco.
Pollicino dei Grimm lo attraversa per andare nella casa dell'Orco, Enea per entrare nell'Averno, e per Ulisse nell'Ade.
Bisogna anche notare che la parola "orco" non è soltanto riferibile al mostro che incontra Pollicino, ma anche altri protagonisti delle fiabe popolari, ma spesso era usato come sinonimo dell'inferno o semplicemente aldilà.
Anche i protagonisti greco-romani della discesa agli Inferi passano questa selva oscura.

"...dov'è una bassa spiaggia e boschi sacri a Persefone [la moglie di Plutone dio dell'oltretomba]
alti pioppi e salici dai frutti che non maturano,
[...]
e scendi nelle case putrescenti dell'Ade"
(Odissea, X, 510-516)
Francesco Corneliani, Enea condotto dalla Sibilla


Ovidio invece descrive
"...una via che in declivio si perde fra il fosco di tassi funerei; attraverso muti silenzi conduce agli inferi"
(Metamorfosi, IV, 431)


Ma ciò che accomuna Ruzante a Virgilio è la condizione "sine qua non" il viaggio agli inferi non è permesso.
In ambedue i casi è presente un ramo.
Anzi il "Ramo d'oro" usato da Frezier come titolo del suo saggio più importante. Scritto a fine '800 ma ancora basilare per lo studio dell'etnologia..
Sia Ruzante con il ramo di finocchio che Virgilio per il ramo d'oro si devono procurare un simbolo, Propp lo definirebbe: un aiutante magico, per non trovarsi in completa difficoltà di fronte all'oscuro mondo dell'aldilà.
Ma cos'è il ramo d'oro dell'Eneide?
Probabilmente il vischio come accenna lo stesso testo:
Loki uccide Balder con un ramo di vischio
(Manoscritto vichingo dell'Edda di Snorri)

"Come il vischio, che si riproduce su un albero suole nel freddo invernale, verdeggiare di fronda novella nei boschi e avvolgere i tronchi rotondi con gialli aurei frutti, tale era l'aspetto dell'oro frondoso sull'elce ombroso"
(Eneide, VI, 6)

Ma quel "come" ci mette in allarme visto che, ad occhio e croce siamo di fronte ad una similitudine. Dunque il vischio non è il ramo d'oro.
Dalla mitologia Scandinava possiamo fare un confronto con la storia del perfido Loki che uccide, anzi fa uccidere da un dio cieco il guardiano del Wallhalla: l'amatissimo Baldr (o Baldur o Balder nella versione tedesca della stessa mitologia), appunto con un ramo di vischio.
La somiglianza fra l' "Eneide" e l' "Edda di Snorri" da cui è tratta la storia è abbastanza inspiegabile, vista la lontananza, anche geografica, di queste due antiche religioni.
Però va tenuto conto che anche oggi questa piccola pianta è portatrice di un simbolo di fortuna e lungo amore. Quindi una pianta legata ad un potere "magico" che ancora oggi gli attribuiamo.

La grossa differenza fra il destino di Nale di Ruzante e quello di Enea è che l'eroe troiano riesce a trovare il talismano per poter entrare ed uscire dall'Ade, mentre nella favola inventata da Nale per prendersi gioco della moglie, lui non riesce a prendere l'arma magica dei benandanti ed è costretto a rimanere confinato fra i tormenti dell'inferno cristiano.
Tutto ciò ci fa sospettare che Ruzante avesse ben presente i riti dei benandanti e le loro battaglie propiziatorie.D'altronde sappiamo bene che Ruzante, nella sua veste di amministratore delle proprietà padovane della famiglia Cornaro, aveva raccolto il materiale servito per le sue commedie, direttamente dalla viva voce dei villani del XVI secolo.
In fondo Ruzante fu un precursore degli studi degli etnologi e antropologi del nostro tempo.



sabato 14 aprile 2012

L'Unicorno di Pantaleone

Mosaico di Otranto, Bestiario (part.)
Il mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto è una vera e propria visione del mondo e della cultura medievale.
Il monaco Pantaleone è il suo autore. Prima di cercare fra i simboli inseriti in questa opera qualcosa di strano e fuori dalle righe, cerchiamo qualche notizia sul suo autore.
Questo è infatti il primo dei tanti misteri che avvolge l'opera.
Sullo stesso pavimento ci sono notizie sull'autore e la datazione dell'opera. Una cosa abbastanza inconsueta è la firma del pittore in opere di questo periodo.
Sempre secondo la scritta scopriamo che questa opera è datata 1165, anche se sappiamo che fu finita in tre anni la data presumibile d'inizio dell'opera è il 1163.


 Incar(n)atione D(omi)ni N(ost)ri Ih(es)u Chr(ist)i MCLXV I(n)dictio(n)e XIII Regnante Do(mi)no N(ostr)o W(illelmo) Rege Magnifi(co) Humilis Servus Ch(risti) Ionathas Hydruntin(us) Archiep(iscopu)s Iussit Hoc Op(us) Fieri P(er) Manus Pantaleonis P(res)b(yte)ri"


Naturalmente le abbreviazioni sono state integrate per una migliore comprensione della scritta pavimentale.
Il significato è abbastanza palese: il presbitero Pantaleone fece quest'opera nell'anno 1165, sotto il regno di Guglielmo e durante il mandato arcivescovile di Gionata di Otranto.
La prima notizia, cioè che è stato finito nell'anno 1165 ab incarnatione ha già un piccolo mistero cioè se la data riportata corrisponde, per noi moderni, all'anno 1165 o il 1166. Quello che fino al tardo '700 era chiamato "anno ab incarnatione" non iniziava il primo di gennaio bensì il 25 marzo, giorno nel quale il Cristo, vuole la tradizione, sia stato concepito.
Resti del Convento di San Nicola di Casole
Dunque se il mosaico è stato finito tra il 1 gennaio e il 25 di marzo per il nostro calendario dovrebbe già essere il 1166.
L'uso dell'anno ab incarnatione è continuato per molto tempo dopo il XII secolo. Ad esempio veniva usato dai fiorentini e i veneziani. Per differenziarlo dall'altro computo a Firenze si aggiungevano una "s" e una "f"(che stanno per "stile fiorentino"). Mentre a Venezia era in vigore il "more veneto" (m.v.) che invece faceva partire l'anno il 1 marzo.
Sul presbitero Pantaleone abbiamo soltanto notizie incerte che lo vogliono monaco basiliano del convento di rito greco di San Nicola di Casole, presso Otranto. La presenza dei monaci basiliani in Italia è testimoniata da vari conventi diffusi nell'Italia meridionale. Arrivati probabilmente con l'occupazione bizantina del VIII secolo, i Basiliani stavano fuggendo dall'oriente in seguito al periodo iconoclasta instaurato nell'Impero Bizantino dopo il 726.
Il Monastero di Casole fu celebre per il suo "scriptorium", che pare niente avesse da invidiare all'omonimo dell'imperatore Federico II. Quindi si tratta di un monastero dove s'incrociarono le culture greca, latina e normanna, infatti nel mosaico di Otranto tutte queste influenze sono presenti.
Potrebbe essere interessante esaminarne gli aspetti teologici dell'opera, ma non sarebbe altro che una goccia nel mare delle decine e decine di interpretazioni, troppo spesso fantasiose di questa opera singolare, ma non l'unica in area pugliese.
Nel nostro caso vogliamo invece puntare l'attenzione su un aspetto particolare delle mille raffigurazioni del mosaico. Ma dobbiamo partire da lontano, in particolare una lontananza geografica che ci stupisce, ma anche da vicino, una vicinanza cronologica che ci stupisce altrettanto.
Non è il caso adesso di affrontare certe simbologie per capire il programma che sta dietro l'opera, come la presenza di Diana cacciatrice, una dea pagana in un contesto cristiano avrà una sua ragion d'essere. Ma Diana (tanto cara agli efesini come ci racconta San Paolo) è stata per molto tempo accostata ad un residuo di paganesimo delle campagne, è la dea madre a cui si rivolgono spesso le streghe e i cerretani. Ma Diana è anche una dea vergine "colei che tutta l'Asia, anzi tutto il mondo, adora" (Atti, 19, 27) e non può non ricordare certe consonanze con la figura della Madonna. E la presenza di Alessandro Magno che transita verso il cielo non richiama alla mente la resurrezione? Può darsi, data la diffusione di questa rappresentazione iconografica anche in altri cicli delle chiese romaniche.
Rex Arturus
Ma quello che ci stupisce è la presenza della raffigurazione di Re Artù (REX ARTVRVS). Anche se è un piccolo inserto nel vasto ciclo musivo l'attinenza col resto dell'iconografia è decisamente singolare.
Intanto dobbiamo ammirare la vasta conoscenza del monaco, o di chi ne ha stilato il programma, che ci rimanda alle opere presenti nello scriptorium di Casole. Sicuramente le leggende del "Ciclo bretone" erano presenti nel monastero già dal 1163, cioè il presunto anno d'inizio dell'opera di Pantaleone. Ma a quale manoscritto si riferisce questa raffigurazione?
Difficile dirlo con certezza, vista la distanza geografica e la vicinanza cronologica. Partendo dai manoscritti arturiani del ciclo bretone troviamo una notizia interessante: la storia di Artù ha una sua appendice italiana (o meglio siciliana) narrata alla corte del re normanno Guglielmo dal cronachista inglese Gervasio di Tilbury. Siamo nel 1160, i normanni hanno ormai il controllo dell'Italia meridionale, e Guglielmo è lo stesso re citato da Pantaleone come "Willelmo Rege Magnifico".
Gervasio racconta come il leggendario Artù vivesse in un palazzo sulle pendici dell'Etna. Ma seguiamo il racconto:

"...narrò come, ferito anticamente in una battaglia da lui combattuta contro il nipote Mordred e Childerico, duce dei sassoni, qui stesse da molto tempo, riaprendosi tutti gli anni le sue ferite"
Bestiario, L'Unicorno

Ma il 1160 è decisamente troppo vicino al 1163 data d'inizio del mosaico, probabilmente non è questa la fonte di Pantaleone.
Però ci siamo dimenticati i Normanni, ovviamente coloro che ormai dal IX secolo erano padroni dell'Inghilterra oltre le merci e l'arte nordica è difficile pensare che non abbiano esportato le proprie leggende. Poi abbiamo i Cavalieri del Tempio, in quel periodo reduci dalle Crociate e anche loro diffusi tanto in Puglia che in Francia, in Provenza e nella lontana Scozia.
In quale modo i Templari entrano nella storia della Cattedrale di Otranto non ci è dato di sapere, anche se alcune fonti vedono in alcuni simboli del mosaico proprio l'influenza dei Cavalieri del Tempio (ad esempio la scacchiera che si trova quasi all'inizio della navata della cattedrale). Ma si sa, anche se è fantastoria, i Templari, gli Egiziani e gli UFO sono alla base di mille interpretazioni di trasmissioni televisive paraculturali come "Voyager", o certi giornaletti di diffusione "popolare", come "Focus", un vero e proprio coacervo di bugie e verità presunte. E' questa quella tipologia di cultura anticamente detta "ad usum delphini" che mischia le sciocchezze con vere e proprie distorsioni della storia.
Eliminando, nel nostro caso, gli UFO non ci rimangono che i Templari e gli Egizi. Ci sono certe interpretazioni ermetiste e esoteriche che vedono nel mosaico la presenza, oltre a quelle greco-romane come Artemide-Diana, di divinità egiziane. E qui caliamo un velo pietoso e rimandiamo alla bibliografia delle stupidaggini molto presenti in rete.
Ma anche noi vogliamo dare un'interpretazione alla "Focus" di una delle tante raffigurazioni presenti in questo mosaico: l'unicorno che si trova in mezzo ai medaglioni del cosiddetto bestiario.
Questo animale fantastico viene spesso usato come metafora del Cristo nei bestiari medievali, come in quello di Bodley del 754 che dice in proposito:

"...Dominus noster Iesus Christus, spiritualis unicornis, descendens in uterum virginis..."


Dama con l'Unicorno, Arazzo fiammingo XV sec.
Infatti anche nel Bestiario di Pantaleone l'animale consacrato a Gesù è simbolo di preghiera, dato che un cavaliere inginocchiato con le mani giunte è davanti a lui in gesto di adorazione.
Ma chi è questo cavaliere? Sempre che si tratti di un cavaliere, il mosaico non ce lo fa capire molto bene dato anche la rozza rappresentazione iconografica.
Io avrei una risposta (o meglio una proposta interpretativa). Data la presenza di Artù si potrebbe trattare di un altro personaggio del "Ciclo bretone".
Ma chi potrà mai essere un personaggio così puro, nell'anima e nel fisico, che può avvicinare un animale  sacro come l'unicorno?
Forse potrebbe essere Parsifal.o Galahad, il figlio di Sir Lancillotto. Ma la cronologia non ci aiuta, Parsifal, o Perceval e Galahad compaiono ne "Le Conte du Graal" di Chrétien de Troyes scritto intorno al 1180, quindi posteriormente al mosaico di Otranto. Sappiamo di un'opera intitolata "Perceval" di Robert de Boron, oggi perduta, ma anche questa scritta probabilmente dopo la composizione dell'opera di Pantaleone.
Quindi il ciclo bretone in questo caso non ci aiuta.
Chi può essere allora quel cavaliere? In fondo è l''unico essere umano che compare nel Bestiario di Pantaleone.

martedì 10 aprile 2012

Mostra di Tintoretto a Roma

Ultima cena

Finalmente, dopo 70 anni dall'ultima mostra del 1937, Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, ha l'occasione di ripresentarsi al pubblico romano con una mostra monografica.

Il Tintoretto, uno dei tre mostri sacri della pittura veneta del '500 insieme a Tiziano e Veronese, è forse fra i tre il meno conosciuto. La sua pittura parte dai grandi esempi della pittura veneziana dai Bellini a Tiziano. Ma il Tintoretto si distacca violentemente da Tiziano, pur mantenendo i colori e la pennellata grassa delle ultime opere del Vecellio.
Tintoretto dà una visione nuova alla pittura, veneta e non solo. I suoi cieli scuri, spesso burrascosi fanno da sfondo a opere di grande spessore iconografico. Introduce in maniera ripetitiva le sue prospettive, spesso angolari e con azzardati giochi di luci ed ombre, lontani dalle prospettive solari del suo contemporaneo Paolo Veronese e si avvicina invece alle opere dei maestri lombardi come il Moroni, fino ad influenzare lo stesso Caravaggio che condivise e poi esasperò la stessa tecnica delle luci e delle ombre del Tintoretto aprendo la strada alla pittura barocca del secolo successivo.

Per capire bene la differenza tra le opere di Veronese e Tintoretto basta mettere a confronto la sua "rivoluzionaria" "Ultima cena" con la "Cena a casa di Levi" del pittore di Verona. Nella prima i personaggi si muovono, spesso in maniera apparentemente caotica, in un ambiente oscuro, illuminato da lampade e torce. La prospettiva naturalmente è angolare.
Mentre la "Cena a Casa di Levi", che ha un'interessante storia di censure e Santa Inquisizione, è il trionfo della luce, dei cieli tersi, dei colori sgargianti, degli esotici richiami all'Oriente, con nani, scimmie a guinzaglio, pappagalli, insomma una vera e propria festa veneziana.
Veronese, Convito a casa di Levi

Forse per questo motivo il Veronese fu premiato con importanti commissioni dalla Repubblica di San Marco come la decorazione del Palazzo Ducale. Le sue allegorie sono un vortice di luce e di colori. Tintoretto seguì un'altra strada. Decorò chiese e conventi, il suo stile rivoluzionario cambiò la pittura, anticipando certi stilemi barocchi, che di lì a poco, con Caravaggio e i Carracci cambieranno il corso dell'arte italiana.

Nella mostra, oltre le principali opere del maestro veneziano come "Il trafugamento del corpo di San Marco", forse la sua opera più celebre, sono esposti anche altri pittori dell'ambiente veneto dell'epoca come: Tiziano Vecellio, Paolo Caliari detto il Veronese, lo Schiavone e Bonifacio Veronese. Oltre una rapida panoramica tra i tardo rinascimentali italiani e stranieri come Lambert Sustris, il Parmigianino e il grande El Greco.

La Mostra sul Tintoretto, a Roma fino al prossimo 12 giugno alle Scuderie del Quirinale, è curata da Vittorio Sgarbi con i testi di Melania Mazzucco.

sabato 7 aprile 2012

La piccola storia di Franco

Isola  delle Bambole
...appena si furono lasciati, il cavalier B. andò a caccia di informazioni: esse non furono magnifiche.

Era curioso di conoscere un po' il suo uomo; poteva senza sconvenienza fargli una visita? I pochi ragguagli che poté ottenere non erano incoraggianti.

-E' spaventoso- disse al suo padrino -E' impossibile ch'io confessi d'essermi battuto con un semplice borghese marito della duchessa F.d.C., e ancora che il mio cocchiere m'ha preso i miei biglietti da visita.-
-E' certo che in tutto ciò v'è possibilità di ridicolo-

La sera stessa il Cavalier B. e il suo amico dissero qua e là che quel signor M., che era poi un giovane molto perbene, era figlio naturale d'un amico intimo del duca-padre. Questa notizia fu accolta senza troppe difficoltà. Una volta che ciò fu cosa convenuta, il giovane diplomatico e il suo amico si degnarono di fare qualche visita a F.C., nei quindici giorni che egli passò in camera.

All'Opera il cavaliere di B. lo presentò al famoso cantante che vi riportava successi immensi.
F. faceva quasi la corte al cavaliere; quel misto di rispetto per se medesimo, d'importanza misteriosa e di fatuità, lo affascinava. Per esempio il cavaliere tartagliava leggermente perché aveva l'onore di trovarsi spesso con un gran signore che aveva questo difetto.


F.C. non aveva mai trovati riuniti in una sola persona il ridicolo che diverte e la perfezione delle maniere che un povero provinciale deve cercar d'imitare.
Lo si vedeva all'Opera insieme col cavaliere di B.; questa intimità fu occasione che lo si nominasse.
-Ebbene- gli disse un giorno il duca-figlio -eccovi dunque figlio naturale d'un ricco gentiluomo dell'Insubria, intimo amico di mio padre!-

Il duca interruppe F., che protestava di non aver contribuito in alcun modo ad accreditare la voce.
-Il signor B. non ha voluto essersi battuto col figlio di un poliziotto.-
-Lo so, lo so,- disse il duca -tocca ora a me dar consistenza a questo racconto, che mi fa buon gioco. Ma debbo chiedervi un favore, che non vi costerà che una mezz'ora del vostro tempo: tutte le sere d'Opera, alle undici e mezzo andate nel vestibolo ad assistere all'uscita del bel mondo.

Avete ancora qualche volta qualche maniera provinciale, bisognerebbe liberarsene; d'altra parte non è male conoscere, almeno di vista, qualche persona altolocata presso cui posso un giorno darvi qualche missione. Passate all'ufficio dei biglietti a farvi riconoscere, è stato preso l'abbonamento per voi...-