giovedì 15 marzo 2012

Antoine Caron pittore di teatri impossibili

Trionfo dell'Inverno (1568)

Fra i pittori che indulgono a creare gli sfondi dei loro quadri come fossero delle scenografie teatrali sconclusionate, almeno apparentemente, si può dire che il primato sia del francese Antoine Caron.
E' difficile trovare qualche cosa di così incredibilmente falso, di così platealmente teatrale, che va oltre il dipinto e tende a confondere la vita con il teatro.

Pieter Brughel, La torre di Babele (1563)
Antoine Caron sta in quel novero di pittori che fecero della follia dei fondali scenografici una questione artistica. Fra i primi ci furono i visionari quattrocenteschi olandesi come Hieronimus Bosch a indicare questa strada, seguita da Pietr Brughel , vedi l'esempio della  "Torre di Babele" a cui Caron deve molto, soprattutto per il suo "Massacro sotto i Triunviri" e la versione del Colosseo in sezione. Ma visto che sono stati dipinti quasi in contemporanea, a soli tre anni di distanza l'uno dall'altro,  non è detto che Caron conoscesse per forza il quadro dell'olandese.

Anche dopo Caron altri pittori continuarono nella sua ricerca come Monsù Desiderio, anche lui costruttore di quadri dalle scenografie impossibili come, e forse più, di quelle di Caron, anche se fra i due ci sono due secoli di distanza.

I quadri di Caron seguono una visione esasperata delle scenografie ed altri rimandi al mondo teatrale.
I palchi che circondano i suoi soggetti sono una trasposizione disarticolata, e spesso con una prospettiva apparentemente approssimativa, di quelli che erano i palcoscenici del teatro umanistico.
La follia di Caron  riempie i suoi dipinti non con uno solo, ma con svariati palchi contigui e talvolta sovrapposti che in genere hanno poco a che fare con la storia rappresentata nel dipinto.

Massacro sotto il Triunvirato (1566)

Questo è il caso della sua opera più famosa, il dipinto intitolato "il massacro sotto il Triunvirato", fatto nel 1556.
Si vuole che sia una rappresentazione delle guerre di religione fra cattolici e protestanti avvenute in quegli anni in Francia..
Ma al di là del significato politico-iconologico, il palcoscenico, anzi i tre palchi contigui, separati da pareti invisibili di Caron sarebbe stato il sogno di Wagner o di Max Reinhardt.
Sebastiano Serlio, Scena tragica (1545)

L'apparato scenografico dei suoi fondali è qualcosa di modernissimo costruito sulla ricostruzione dell'antico. Ma non soltanto antico per la presenza di ricostruzioni di monumenti classici romani, quanto per la somiglianza fra i suoi poco probabili paesaggi ed altre raffigurazioni  riconosciute come veri palcoscenici del teatro rinascimentale.

Ad esempio nel quadro di Caron ci sono degli echi dei palcoscenici del teatro umanistico di stile serliano, in particolare sulla sinistra del quadro si vede una scena urbana molto simile al palco della "Scena tragica" vista la forte presenza di architetture classiche, del libro della "Prospettiva" di Sebastiano Serlio pubblicato più di dieci anni prima nel 1545.
Alcuni degli edifici della prospettiva scenica di Serlio, modello per il teatro rinascimentale, paiono presenti anche nel quadro di Caron.

In Caron essendo la veduta decentrata a livello orizzontale e soltanto a sinistra, ci mostra anche la piazza antistante.
Massacro, part. scenografia urbana
Anche se nessuno ha fatto notare la somiglianza tra le due vedute, siamo ovviamente a livello di pura ipotesi anche se non dobbiamo scordare che quello di Caron non è un paesaggio urbano "reale", ma uno dei tanti palcoscenici presenti in questo quadro, quindi una citazione teatrale.

Sulla sua opera ha pesato l' influenza del primo maestro: il fiorentino Primaticcio, e della scuola di Fontainebleu, quindi il Manierismo fiorentino trasposto in area francese.
Forse il Primaticcio lo influenzò come manierista e per certe scene di gusto teatrale. Mentre più forte fu l'influenza di Niccolò dell'Abate e qualche eco della pittura di Piero di Cosimo non è estranea a questo tipo di raffigurazioni.

Questa dell'intreccio delle storie rappresentate su di una sola tela era già presente in Pontormo, il capofila della nuova sensibilità tardo Rinascimentale a cui abbiamo dato il nome di Maniera. Ad esempio nelle sue "Storie di Giuseppe" dove su di un solo sfondo con due spazi praticabili, si susseguono le vicende del Vicerè che riceve il padre e i fratelli, seguendo un andamento a "serpentina" delle storie, un classico dello stile di Pontormo.
Poi può capitare che nella scena pontormesca, zeppa di personaggi e situazioni, Giuseppe arriva sulla scena con un carro trionfale (si notino le ruote sotto le frange della stoffa) e trainato da fanciulli coronati d'alloro.

Il carro del "Trionfo dell'Inverno" di Caron ha la stessa funzione. Questo dell'inverno è una delle quattro tele del cosiddetto "Trionfo delle Quattro Stagioni". Lo stesso motivo si ritrova in altri pittori del Rinascimento italiano, uno per tutti Mantegna con i suoi "Trionfi di Cesare".

Pontormo, Storie di Giuseppe
I carri trionfali sono un classico del teatro barocco, ma qui siamo ancora in pieno Cinquecento e forse è più vicino il ricordo dei carri carnascialeschi (per Vasari inventati addirittura da Lorenzo il Magnifico in persona). O anche, e questo è forse più  vicino alla sensibilità nordica del pittore francese, i carri che trasportavano le scene delle sacre rappresentazioni medievali in Francia diffuse capillarmente anche nei secoli seguenti.

In più questa consuetudine dei carri carnevaleschi o quelli delle sacre rappresentazioni (i peageant), era amata e vicina alla sensibilità popolare. Questo era il momento in cui il Principe poteva mostrare la sua magnificenza. In Pontormo si nota il giovane inginocchiato che presenta una supplica al Vicerè sul carro trionfale.

Ritornando al quadro di Caron sul "Massacro sotto il Triunvirato", il Caron sceglie, per il suo palco centrale, una scenografia classica, con una finezza architettonica ben visibile: la sezione del Colosseo.
L'attore protagonista sta addirittura scendendo nell'orchestra per continuare la sua recita in mezzo al pubblico.
Questo è il vero "teatro totale" del quale prima della fine dell'Ottocento nessuno ebbe il coraggio di teorizzare, e mai messo in pratica fino al teatro contemporaneo.
Augusto e la Sibilla del Tevere (1580)
In precedenza nei secoli si era teso a differenziare lo spazio scenico da quello del pubblico, anche per questo motivo sono nati i teatri.

Nei teatri inventati da Caron il pubblico può scegliere lo spettacolo da seguire, come nella tela "Augusto e la Sibilla Tiberina". Si può seguire la rappresentazione, probabilmente di un'opera règia che era una specie di melodramma semitragico con storie di eroi e condottieri del passato, recitato senza musica. Il Caron mette in scena la "Storia di Augusto", giunta al momento nel quale l'imperatore chiede lumi alla Sibilla Tiberina.
Ercole de Roberti, scudo con la rappresentazione di Roma per luoghi deputati

Ma si può anche, dall'altro lato della barriera che divide il palcoscenico dal pubblico, seguire un altro spettacolo: un Torneo. E gli spettatori dell'uno e dell'altro spettacolo sono equamente divisi fra quelli rappresentati nel quadro. A mio avviso il vero delirio teatrale di questo pittore.

Ciò che colpisce è l'intrico di stili, tragedia, opera regia, torneo o sbarra, talvolta nello stesso quadro. Le scenografie costruite su una Roma tra vera o inventata, anzi ricostruita dal pittore come un grosso sipario dove appaiono il Pantheon,  Ponte Milvio, Castel Sant'Angelo, come nel dipinto del "Massacro", messi in fila come le edicole di una Sacra Rappresentazione.
O come i "luoghi deputati" della rappresentazione scenografica di Roma, come si vede nello scudo dipinto dal ferrarese Ercole de' Roberti nello stesso Palazzo Schifanoia del Cossa.

Ma tutto pare di cartapesta o legname dipinto, fatto apposta per darci l'illusione della città, anzi di una città inesistente.
Mausoleo di Augusto, inc. del '700

Come il Castello e le mura di "Augusto e la Sibilla" paiono altrettanto finte che il resto dell'effimera città con soli archi trionfali e altre edicole come quella rossa al centro che penso abbia la presunzione di rappresentare il Mausoleo di Augusto.

Ai lati di questa incisione ci sono due obelischi, in quello di Caron uno soltanto, ma la similitudine tra i due edifici è impressionante.
Lo stesso edificio compare, molto più nitido, anche se accorciato di due piani, durante i "Funerali dell'amore".
Qui ritorna il tema dell'apparato viario, il momento di comunicazione tra il principe e il popolo, come nel caso di Pontormo.

I funerali dell'amore sono una processione dove gli uomini che partecipano seguono una vera bara dov'è posato l'Amore morto. Il corteo è preceduto da amorini festosi, ma con i segni del lutto, che lo guidano innalzando pali colorati con uccelli serpenti ed altri oggetti probabilmente attributi del dell'Amore o simboli della sua morte.
Funerali dell'Amore

Le donne non partecipano all'evento. Invece un folto stuolo di uomini esce da sotto il portico della scenografia della festa. Da sopra il portico s'affacciano per seguire lo spettacolo le gentildonne, mentre tra il pubblico dei paesani che segue tranquillamente seduto sull'erba il corteo ci sono  invece le donne del popolo.

Questo dipinto non può non ricordare il Quattrocentesco di Francesco Del Cossa e il suo ideale palcoscenico albertiano dello scomparto del mese di "Aprile" negli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara. Anche in quel caso le gentildonne guardano lo spettacolo, nello specifico del Cossa il Palio di San Giorgio, dalle finestre o dai terrazzi del Palazzo-scenografia che è quello dipinto dal pittore ferrarese.
Francesco Del Cossa, Mese di Aprile (part.)
Anche se nei grossi cicli di affreschi, come nel caso del Cossa , il palio è soltanto un frammento, una citazione "culta", all'interno di un ciclo molto più grande e complesso, in Caron invece diventa il motore della rappresentazione pittorica.

La ricerca dell'equilibrio formale del Quattrocento in Caron si deforma, senza perdere la sua specificità di rappresentazione teatrale. Nei teatri di Caron il pubblico può essere tanto presente, come in "Augusto e la Sibilla", dove si svolgono due spettacoli in contemporanea, oppure senza pubblico come nel "Massacro sotto il Triunvirato". Ma in questo secondo caso è ovvio che il pubblico è colui che guarda il quadro.
Giostra dell'Elefante

Nei "Funerali dell'Amore" il pubblico è già dentro il quadro per assistere allo spettacolo viario, così come nell'affresco del Cossa.
Anche in quel caso dell'affresco ferrarese il pubblico siamo noi, ma partecipiamo allo spettacolo sotto l'occhio vigile del Principe che ci guarda dal proscenio del teatro.

Esaminare tutte le opere del Caron, pur se è un lavoro divertente, occuperebbe lo spazio di più di una tesi di laurea, quindi noi ci fermeremo a quest'ultimo quadro che non comporta equivoci: si tratta di una scena di uno spettacolo.
Uno dei tanti spettacoli di genere guerresco che avevano grande seguito, soprattutto tra il popolo e non soltanto: La Giostra, nel caso specifico la giostra dell'elefante.

Come si vede qui il pittore non indugia su eventuali messaggi nascosti, questa è una vera e propria arena, con una platea e dei palchi sopraelevati.
Il tipo di spettacolo è un classico del '500, oggi non più praticati, ma assimilabili alle corride. Sono ovviamente finte battaglie, anzi più che altro somigliano a dei balletti con precise coreografie predeterminate.
Il momento culminante di questi spettacoli fu il primo barocco con le celebri naumachie, soprattutto a Venezia, ma anche a Roma e a Firenze. Altri generi furono le commedie-balletto o le vere e proprie apoteosi scenografiche e coreografiche come "Il Mondo Festeggiante" fatta in onore del matrimonio dei principi Cosimo de' Medici e Margherita Luisa d'Orléans, la nipote di Luigi XIV.

Stefano della Bella, Il Mondo Festeggiante
La tradizione viene da lontano, e in certe manifestazioni, tipo la Giostra del Saracino ad Arezzo si sono mantenute. Ma divennero più fastose durante le feste private con risonanza pubblica, tipo matrimoni dei principi, quando anche il popolo veniva chiamato ad assistere a queste prove di mecenatismo fine a sé stesso se non a glorificare la casa regnante o la famiglia che metteva in scena questi apparati.

Questa è quella che in antropologia si potrebbe chiamare la "nozione di dépence", cioè lo spreco, la dimostrazione della propria potenza attraverso lo spreco "sacro" di risorse dimostrative.

Quindi forse per una volta Caron non mette in scena un suo delirio, ma interpreta uno spettacolo reale.
Questa cosa è un po' sospetta, visto il tipo che tenta sempre di sottomettere al suo volere rappresentazioni sceniche spesso tratte dal teatro della sua mente.
Infatti pare che nessuno abbia mai riprodotto, in pittura o incisione, tantomeno descritto questo "Elephant go merry" o Giostra dell'elefante. Anche prendendo in considerazione le esaltate menti di scenografi barocchi come il Bernini o deliri architettonici "reali" come certe opere del Borromini o del Guarini, nessuno aveva mai avuto questa fissazione delirante per la scenografia teatrale come Antoine Caron
Città ideale, pannello di Baltimora

E' sempre pericoloso dire nessuno, soprattutto dopo esserci ricordati della "Città ideale", del Museo di Baltimora, di ignota mano di ambito di Piero della Francesca.

L'ordine della tavola prospettica di Baltimora viene disgregato e sezionato. Quello che può sembrare a prima vista quasi un Metafisico del '900, nel "Massacro sotto i Triunviri" di Caron viene violentato dalla onnipresenza di attori in scena che confondono, nello spettatore, l'unicità della scenografia disgregandola in mille pezzi.
Forse si può dire che l'applicazione, inconsapevole, delle scenografie di Caron abbia dato il via alla confusione, molto medievale, tra pubblico e attori facendoli partecipare al medesimo evento comunque da protagonisti.
Caron fu davvero il primo a rompere la quarta parete?
Sarebbe bello sapere la risposta, per adesso godiamoci il genio e la follia di questo francese alla corte di Caterina de' Medici.

P.S. su questi quadri sono stati fatti anche studi di carattere "esoterico" o falso tale, non difficili da trovare in rete (come tutte le bufale) se siete interessati: complimenti siete più folli di Caron!

mercoledì 14 marzo 2012

Pontormo e la censura

La creazione di Adamo ed Eva
"Intendeva rivaleggiare Michelangelo, ma invece non fece che un ammasso di scontorcimenti e di strane figure, onde vennero imbiancate senza danno dell'arte"

(Filippo de Boni, Biografia degli artisti, Venezia, 1840)

Questa frase tremenda, di un'iconoclastìa che dovrebbe far vergognare qualunque storico, o anche soltanto un amante, dell'arte di ogni tempo, Filippo de Boni la indirizza al "Giudizio Universale" di Jacopo Carucci detto il Pontormo.

E qui entriamo nel torbido mondo della censura, che ha colpito l'arte pittorica, e non, in tutti i tempi o quasi. Forse, incredibilmente, abbiamo perso (volontariamente) più opere nel Secolo dei Lumi che durante il Modioevo e la Controriforma.

Mettere i mutandoni ai nudi della Sistina, ai tempi della Controriforma, non è paragonabile al danno della imbiancatura del coro della Basilica di San Lorenzo, a Firenze con la conseguente sparizione di uno dei più grandi affreschi di Pontormo sul tema simile di quelli di Michelangelo della Cappella Sistina a Roma: le storie dell'Antico Testamento e il Giudizio Finale.
Questo ciclo fu probabilmente il punto d'arrivo dell'arte di Pontormo dato che morì mentre ancora affrescava questo capolavoro che fu finito dal suo migliore, e forse unico, allievo: Agnolo Bronzino.
Proprio di Bronzino è l'unico scomparto rimasto dell'intera decorazione che rappresenta il "Martirio di San Lorenzo", questo probabilmente faceva parte del complesso degli affreschi, anche quelli di Pontormo nel Coro, quindi lo stile di questo del Bronzino non poteva essere dissonante con il resto della decorazione, quindi dovrebbe essere consono anche allo stile del maestro.
Agnolo Bronzino, Martirio di San Lorenzo


Gli affreschi di Pontormo sopravvissero alla Controriforma, durante la quale il ciclo fu finito nel 1556. Il Pontormo sarebbe morto l'anno successivo.
Ma non sopravvissero alla figlia del bigotto Cosimo III de' Medici, sotto la quale furono irrimediabilmente grattati via dal coro della chiesa. Correva l'anno 1738, taluni lo pospongono al 1742 quindi per volere di Anna Luisa Elettrice Palatina, nel momento del trapasso dei poteri tra gli ormai estinti Medici e i Lorena.
Poco importa, fu comunque il bigottismo degli ultimi Medici che distrusse uno dei più grandi affreschi del primo Manierismo.

L'Abate Lanzi, noto erudito e storico dell'arte del '700, al contrario del de Boni, si lamenta della perdita degli affreschi che non ebbe modo di vedere dal vivo:

"Imbiancata già senza querela degli artefici"

(Luigi Lanzi, Storia Pittorica dell'Italia)

Poi si lascia andare ad una descrizione ripresa dalle notizie lasciate da Vasari nella vita del pittore, uno dei pochi che ha descritto il ciclo degli affreschi nel dettaglio del coro di San Lorenzo.

Probabilmente il disegno col mucchio di morti "contorti" (come direbbe il de Boni) corrisponde alla descrizione del Vasari:

Mucchio di cadaveri (Diluvio Universale?)
"Fece la inondazione del Diluvio, nella quale sono una massa di corpi morti ed affogati"


(Giorgio Vasari, Vita del Pontormo)

Vasari è il primo a stupirsi della nudità di tutte le figure, Evangelisti compresi, che in genere vengono rappresentati vestiti.

"In uno de' canti [...] sono i quattro Evangelisti nudi con libri in mano"


Evangelisti
Anche per Vasari siamo di fronte ad un'opera particolare, probabilmente il manierista Vasari non capisce il michelangiolismo interno a quell'affresco, il suo voler oltrepassare Michelangelo, affrontandolo sul suo terreno, quello del nudo e dei corpi scultorei.

Poi ci sono delle implicazioni teologiche sulle quali sorvoliamo, la bellezza di questo ciclo d'affreschi deve essere stata senza paragoni.
Ma Vasari non l'apprezza, l'intrico dei corpi inutilmente nudi. Nel confrontarsi con le muscolari anatomie michelangiolesche, Pontormo contrapponeva, a quelle statuarie, ma statiche nell'effetto pittorico, di Michelangelo, i suoi corpi guizzanti, spesso intrecciati, ma anatomicamente altrettanto accurati che quelli di Michelangelo.

Pontormo affronta il nudo con un certo coraggio, sia per l'ovvio confronto che ci sarebbe stato con l'affresco della Cappella Sistina, sia perché in precedenza non è stata certo una sua caratteristica il nudo.

Ovviamente nella "Deposizione" di Santa Felicita il corpo di Cristo deposto è nudo, come richiede la tradizione iconografica, ma il corpo di Gesù è diverso dai personaggi di un Giudizio Universale.

Forse proprio la "Deposizione" è il quadro di Pontormo più stilisticamente vicino al Giudizio Universale. Questa è una deduzione visti  vari disegni rimastici di mano del Pontormo dei bozzetti dei suoi affreschi.

I corpi intrecciati, l'iconografia a spirale di questo capolavoro dell'arte mondiale: cioè "la Deposizione", possono, a mio avviso preludere a quelli che il Vasari descrive come una ragnatela di corpi che avviluppa colui che guarda al punto da farlo impazzire:

Deposizione
"Ch'io mi risolvo, per non l'intendere ancor io [l'affresco di Pontormo] , se ben son pittore di lasciarne far giudizio a coloro che la vedranno [purtroppo noi non siamo fra questi]: perciocché io crederei impazzarmi dentro e avvilupparmi, come mi pare, che in undici anni di tempo che egli ebbe, cercass'egli di avviluppare sé e chiunque vede questa pittura con quelle così fatte figure"


La perdita di un simile capolavoro ci pone di fronte ad un quesito: dove è arrivata l'arte del Pontormo?
Forse ha superato sé stessa?
E' molto  probabile ma purtroppo non lo sapremo mai, è intervenuta la censura a scegliere per noi se fosse degno o no di essere visto.

sabato 10 marzo 2012

I pittori italiani alla corte dei Wittelsbach

Alessandro Scalzi, Narrentreppe, Landshut
Tra la metà e la fine del XVI secolo, un certo numero di pittori italiani emigrarono verso gli Elettorati tedeschi esportando il Manierismo anche in Germania.
In contemporanea in Francia il Rosso Fiorentino e il Primaticcio esportavano la lezione del primo Manierismo fiorentino.

Nessuno dei pittori emigrati in Germania è del calibro di Rosso Fiorentino, ma riuscirono lo stesso ad esportare la pittura italiana tardo rinascimentale influenzando non poco anche i pittori locali il più famoso dei quali fu Christoph Schwartz.

Fra questi pionieri vanno citati alcuni più celebri come Giulio Licinio, che esportò il gusto veneziano delle grandi pale d'altare e altri più sconosciuti come Alessandro Scalzi detto il Paduano, ma in realtà oriundo fiorentino, del quale conosciamo, quella originalissima opera che è l'affresco della  "Narrentreppe" (ovvero la scala dei buffoni) del Castello di Trausnitz presso Landshut.

Del Paduano conosciamo soltanto una parentela, era cognato, con Federico Sustris architetto e pittore olandese che collaborò con alcuni fregi e grottesche alla buona riuscita dell'impresa dell'affresco di Landshut.
Antonio Ponzano, Grottesca con personaggi di commedia, Landshut

Insieme a Giulio Licinio, che in seguito fu affiancato dal fratello Giovan Battista, l'ultimo pittore del gruppo fu Antonio Ponzano.
L'origine di quest'ultimo pittore non ci è data di sapere da documenti certi, ma essendo un aiuto del Licinio non è da scartare che anche lui fosse di origine veneta.

L'arrivo di questi pittori coincise con la nomina di Sustris quale pittore di corte dei Wittelsbach.

Intanto conviene scoprire qualche cosa in più su questi italiani improvvisamente apparsi nella valle del Danubio e i suoi affluenti.
Alessandro Scalzi, Pala di Landsberg am Lech

Del Paduano conosciamo veramente poco, una pala di un San Michele Arcangelo dipinta in collaborazione con Schwartz per la chiesa dei Teatini di Monaco.Comunque ci viene in soccorso un'altra pala d'altare, sicuramente di sua sola mano, conservata nella parrocchiale di Landsberg am Lech, con Cristo in gloria con i santi Pietro e Paolo.

In questa opera si riconosce lo stile della grande maniera fiorentina del Vasari, ma anche una certa influenza senese di Domenico Beccafumi non sembra estranea al suo stile. Anche se è difficile trovare una collocazione certa, data la mancanza di fonti sulla sua vita e gli ambienti frequentati prima dell'avventura tedesca.

Credo che in tutta, o quasi, la storia dell'arte non vi sia un pittore tanto ignorato quanto Alessandro Scalzi detto il Paduano, che se non fosse per gli affreschi di Landshut sarebbe probabilmente ancora nel Limbo dei pittori sconosciuti.

Anton Fugger chiamò Federico Sustris  ad affrescare il Palazzo dei Fugger a Monaco di Baviera nel 1568.
Ed è da questa data che conosciamo l'esistenza di Alessandro Scalzi che collaborò a questa opera.
Il Sustris fu un allievo diretto di Giorgio Vasari e fra il 1563 e il 1567 era vissuto a Firenze. Per questo motivo, oltre che per lo stile della pala di Landsberg si può dedurre che il Paduano fosse quasi sicuramente un pittore toscano, probabilmente proprio fiorentino e gli accenti vasariani non mancano certo in quest'opera.
Giulio Licinio, Gentiluomo con figlio

Se da un lato ci sono pittori toscani come lo Scalzi o toscaneggianti come il Sustris, dall'altro l'arrivo di Giulio Licinio in Baviera importa un gusto e uno stile diversi.
Giulio Licinio era membro di una dinastia di pittori veneziani. Lo zio Bernardino Licinio fu il più prestigioso e celebrato pittore della famiglia. Anche se sicuramente la parentela con il Pordenone lasciò un segno evidente nello stile di Giulio.

In quel periodo Venezia era stata monopolizzata da tre mostri sacri della pittura: Tiziano, Tintoretto e Veronese che poco spazio lasciarono ad altri pittori lagunari pur notevoli come Lorenzo Lotto, Pordenone e i Licinio, che furono tutti costretti ad andare in provincia, o all'estero come nel caso di Giulio, per poter lavorare.

Il suo stile, come si può subito notare è fortemente influenzato dal Pordenone, e non manca di un chiaroscuro tizianesco, è di evidente scuola veneta.

Giulio Licinio, la continenza di Scipione
Come si è sposato lo stile toscano d'ascendenza vasariana con quello veneto d'ascendenza tizianesca in Germania? Sempre che si sia incontrato ovviamente.
Nella sua tela La Continenza di Scipione (oggi alla National Gallery) si notano certi corpi con le muscolature guizzanti quasi michelangiolesche, e che cosa era il manierismo toscano se non il trionfo del michelangiolesco su tutti gli altri stili promosso con una grossa campagna pubblicitaria da parte del suo maggior estimatore, ovvero Giorgio Vasari?

Al seguito del Licinio troviamo Antonio Ponzano, il decoratore, pittore di grottesche, decoratore della Grotta del Residenz di Monaco, nella corte stessa dei Wittelsbach. Quindi di un artista apprezzato, e premiato con varie commissioni. Nonostante ciò del Ponzano non conosciamo niente di certo, neanche da quale parte d'Italia venisse. Sappiamo di sicuro che arrivò ad Augusta col Licinio chiamato dai Fugger, ma poi lo ritroviamo a Landshut a fare grottesche per il toscano Scalzi.
Che sia proprio Ponzano il trait-d'union fra i veneti e i toscani?
Residenz di Monaco, grottesche di Antonio Ponzano

Sicuramente il "Grottenhof" del Residenz, somigliava molto da vicino alle sue omologhe delle ville e i palazzi medicei, come la "Grotta di Boboli" del Buontalenti.
Aveva fatto lo stesso uso dei materiali marini come spugne e conchiglie di Buontalenti. La direzione architettonica del Sustris sostituì la grotta con uno spazio praticabile, quasi un espediente teatrale o un palcoscenico delle meraviglie che sono queste donne e questi uomini fatti solo di conchiglie.

Quindi il Ponzano non era un vero e proprio pittore quanto piuttosto un decoratore, lo stile delle sue grottesche non ci danno nessun riferimento geografico, somiglia a tanti suoi colleghi, anche molto più famosi come Marco da Faenza, Giovanni da Udine (il più celebre in assoluto) e Morto da Feltre.
L'unica cosa che unisce tutti questi pittori-decoratori è la provenienza veneto-romagnola, quindi la presenza del Ponzano fra i collaboratori del Licinio potrebbe essere spiegata da una consuetudine consolidata dei veneti, ma così non è.
Grottesche romane, Domus Aurea, Roma

La grottesca è uno stile che per primo ritroviamo tra i pittori romani classici. Lo stesso nome di grottesca deriva da "grotta". Le prime decorazioni a grottesca furono infatti scoperte nella Domus Aurea di Nerone, poiché questa si trovava sotto la sede stradale della Roma  rinascimentale si credette di ritrovare una decorazione classica di ambienti sotterranei. I primi a riportare in vita questa decorazione furono i pittori della cerchia di Raffaello e poi si diffusero anche nel resto della penisola.

Diversa è la storia del Grottenhof, oltre le grottesche, come abbiamo detto, il Ponzano si rivolge ad una tipologia di decorazione classica del '500, quella con materiali marini, diffusa soprattutto in area toscana.
Sustris, Ponzano, Candid, Grottenhof, Residenz, Monaco
Non a caso abbiamo citato Bernardo Buontalenti, un genio della decorazione cortigiana come termine di paragone. Con il Ponzano alla grotta del Residenz di Monaco lavorarono Sustris, per la parte architettonica, e il collaboratore fiammingo degli italiani: Pieter de Witte detto Peter Candid.

Anche il de Witte veniva dalla Toscana, dove collaborò con il Vasari e Taddeo Zuccari al grandioso affresco della volta della cupola di Filippo Brunelleschi. Quindi anche lui di scuola manierista fiorentina. Piano piano stiamo scoprendo come più da Firenze che da Venezia l'influsso manieristico si diffuse in Baviera.

In genere quando si pensa al mecenatismo dei Wittelsbach si fa riferimento al periodo dell'ultimo re, il celebre Ludwig, quello del bellissimo film di Luchino Visconti, e la protezione che offrì a Wagner, molto contestata dalla corte e i cittadini a causa delle folli spese del giovane sovrano. Influenzato dal maestro di Lipsia, e ricalcando i motivi delle sue opere fece costruire i famosi castelli in stile neogotico e neorococò. Ma il mecenatismo dei Wittelsbach, come abbiamo visto, parte da più lontano, almeno da questi pittori cinquecenteschi poco considerati in patria ma dei maestri riconosciuti in area Svevo-bavarese.

Parleremo altrove degli affreschi di Landshut poichè hanno diritto ad una disamina più approfondita.

domenica 4 marzo 2012

Tibor Déry - Il mondo alla rovescia

Tibor Déry
Un giorno, grazie ad amici, lessi questo libro: "Il signor A.G. nella città di X" di Tibor Déry.
Devo dire che ne rimasi profondamente colpito. Il suo autore per me era uno sconosciuto (ammetto la mia ignoranza della letteratura ungherese).
Questo particolare romanzo può essere definito il testamento, in versione surreale, dell'autore stesso.


Ma chi era Tibor Déry? Uno scrittore ungherese nato alla fine dell' '800 e morto nel 1977 a Budapest.
La sua vita fu un calvario, cacciato dall'Ungheria durante la prima istituzione, nel 1919, del regime filobolscevico di Béla Kun, in quanto d'orientamento liberale, Déry torna in patria nel 1926 e parte per una serie di viaggi nell'Europa occidentale. Nel frattempo s'avvicina all'ideologia comunista.
Salito al potere il filofascista Ammiraglio Horthy, nel 1939, di nuovo Déry deve fare le valige per la traduzione, quello di traduttore era la sua occupazione dopo i viaggi fatti in Francia, Italia e Germania, di un romanzo di André Gide non gradito dal regime di Horthy.
Budapest, Rivolta del 1956


Tornato di nuovo in patria, partecipò alla resistenza contro i tedeschi. Rimase a Budapest anche dopo l'arrivo dell'Armata Rossa. Comunista eterodosso nel 1956 s'avvicinò alle posizioni antistaliniste di Imre Nagy. Dopo la tragica esperienza della Rivolta ungherese, repressa nel sangue dalle forze "amiche" del Patto di Varsavia, Déry viene imprigionato per quattro anni, anche se condannato a nove anni, e graziato nel 1961.
Durante la prigionia ebbe l'ispirazione per il suo romanzo "Il signor A.G. nella città di X", poi pubblicato nel 1963.


Questo romanzo viene dopo il suo più famoso: "Niki, storia di un cane", romanzo realista e antistalinista, sulla vita di un cane nell'Ungheria al tempo di Stalin e che fu pubblicato nell'anno della rivolta. Niki storia di un cane lo portò all'attenzione del filosofo Gyorgy Lukàcs, già celebre per i suoi studi sull'estetica del realismo.
Il signor A.G. nella città di X invece supera il realismo, con la visione del mondo nuovo che il protagonista incontra in una irriconoscibile Budapest chiamata semplicemente X.
Spesso accostato al romanzo kafkiano, il romanzo di Dery viene considerato un'opera "distopica".
La letteratura distopica è la versione negativa di quella utopica. La città di X ha le stesse caratteristiche dell'isola di Utopia di Thomas More o la Città del sole di Tommaso Campanella, ma l'aspetto di Eden che caratterizzano i due luoghi immaginari degli utopisti del Rinascimento, in Dery si trasformano in un labirinto di valori rovesciati, non sempre comprensibili, spesso non condivisibili, che il signor A.G. vive, non senza stupore, durante la sua permanenza nella società comunista estremizzata della città di X.


Pieter Brugel, Il paese di cuccagna
X è il mondo alla rovescia. La città di un eterno carnevale dove i valori della società sono completamente antitetici a quelli che lo stesso protagonista conosce. Ma Kafka è ben lontano da questa visione. Quello di Kafka è un mondo opprimente, privo di regole come nel "Castello" o esageratamente burocratizzato come nel "Processo".
Il mondo di Dery non è privo di regole, ha delle regole nuove, quelle del "Paese di Cuccagna", è un mondo carnascialesco, a suo modo divertente nel grottesco che ne deriva, ma con un retrogusto amaro.
Tutti pensano che il paese di cuccagna fosse il luogo dell'anarchia, ma non era così. Nel Medioevo e Rinascimento questo paese, così ben letterariamente descritto da Boccaccio, aveva delle sue regole ferree e infrangerle portava a brutte conseguenze. I peggiori criminali, in questo bel paese, sono i lavoratori a cui viene impedito di ripetere il reato spezzandogli le braccia e sbattendoli in galera.


Anche nell'anarcoide città di X i ricchi vengono sbeffeggiati in pubblico, si mangia nei ristoranti senza pagare e i processi sono degli spettacoli teatrali, finiti i quali tutti se ne tornano a casa, compreso i condannati che vengono alloggiati in una specie di hotel a cinque stelle chiamato "galera" da dove possono entrare e uscire a loro piacimento.
Budapest dopo la rivolta


Ma il mondo di Déry non è un mondo felice, è un mondo dove se non si capiscono le regole si rischia di essere espulsi ed emarginati. Ma le regole della città di X non sono palesi. Si possono aspettare giorni alla fermata del tram sperando che prima o poi passi di lì.
Il viaggio di Dery-A.G. per arrivare nella Budapest-X passa attraverso chilometri di macerie, le macerie della guerra, della vita e dei valori traditi. Fino ad arrivare in un mondo che non è di questo mondo, un mondo dove non si muore, si sparisce dopo una lunga marcia gioiosa e dove nessuno è infelice per la tua scomparsa.
Una visione estrema di una città che non segue la logica del profitto e non esiste proprietà privata, potrebbe sembrare un paradiso, ma si trasforma presto in un incubo, un posto da cui, come il protagonista bisogna scappare, come da Budapest dopo la rivolta del '56.

mercoledì 29 febbraio 2012

Cinema surrealista: il mondo colorato di Russ Meyer

Locandina di Faster Pussycats, kill kill (1965)
Quentin Tarantino, il più importante visionario della società dei nostri giorni, ha spesso definito i suoi film come influenzati dall'horror italiano degli anni '60 '70 di Mario e Lamberto Bava.
Altrove, nei suoi film, si sente forte l'influenza del genere kung fu come in "Kill Bill", o citazioni dello stesso genere come nel film di Tony Scott (il fratello di Ridley di "Blade Runner")  "Una vita al massimo" di cui Tarantino firma il soggetto.

Ma chi fu davvero il proto-Tarantino nel cinema americano è sicuramente Russ Meyer. Questo regista, ignorato dal grande pubblico, ma con un certo seguito anche in Italia (io sono un fan di questo genio), ha da solo stravolto il modo di fare cinema in America.

Se il cinema softcore in Italia nasce come una distorsione di quello che era la Commedia all'italiana, percorsa da un certo spirito, anch'esso distorto, nato in seguito a quella che si era affermata sin dal 1968 come rivoluzione sessuale, anche se il saggio omonimo di Reich poco ha a che fare con il cinema, soprattutto con il cinema di serie B di Lino Banfi, Alvaro Vitali, quello delle docce di Gloria Guida.

Certa morale classica di un paese a forte maggioranza cattolica e sede della più importante istituzione spirituale come il Vaticano, improvvisamente rompe con il passato e scopre il gusto della rappresentazione della nudità in scena.
Tutto questo ci riporta alla funzione dissacrante che nel '600, in piena Controriforma, aveva avuto la Commedia dell'arte che aprì il sipario alle donne attrici, come sappiamo ancora Shakespeare adoperava giovani attori per interpretare le sue Giuliette o le sue Lady Machbet. Con le attrici, i testi ammiccanti dei canovacci della Commedia dell'arte, divennero occasione di improvvisati strip tease delle attrici più note ed osannate dal pubblico come Isabella Andreini.
Locandina di Totò di notte n.1 (1962)

Ma tornando al cinema,  Russ Meyer fu un regista che iniziò la sua carriera di pari passo con certe pellicole di "finta inchiesta" sulle curiosità del mondo dell'erotismo, molto diffuse in Europa. In Italia in questo genere furono coinvolti anche attori celebri come Totò e Macario. I film "Totò di notte n.1" del 1962 e "Totò sexy" dell'anno seguente, ambedue girati da Mario Amendola e considerati i film peggiori dell'intera carriera cinematografica dei due attori comici, sono un esempio classico di questa forma-documentario destinata, con la fine degli anni '60, a scomparire.

Nel 1966 Russ Meyer s'accoda al genere girando "Mondo topless", definito di genere documentario erotico, dove è sceneggiatore, regista e produttore. Ma Meyer fu un precursore anche di questo genere, il suo primo film, oggi scomparso, "The French Peep Show" del 1950 anticipava di un decennio i film europei.

Ma non lasciamoci sviare, ormai nel 1966, Russ Meyer era un regista abbastanza famoso soprattutto per i suoi film di un nuovo genere, mai visto nell'America puritana, e ostacolato nella diffusione a causa dei suoi nudi espliciti e simulazioni di atti sessuali.

"Mondo topless" fu il primo film che in America non ebbe il visto della censura, cosa molto rara, e fu vietato ai minori. Naturalmente questo interessamento fece salire le quotazioni del regista.

Locandina di Mondo Topless (1966)
 Meyer anticipò molti altri generi nel cinema americano come il film di violenza apparentemente immotivata, ripreso dallo stesso Tarantino nella sceneggiatura di "Natural born killer" di Oliver Stone, nel quale usò sia il bianco e nero che i colori sovraesposti, esageratamente "fauve". Questo uso del colore ricordava quello delle riprese in Super 8 delle tante cineprese in mano ai dilettanti molto diffuse negli anni '50-'60 che diventò una delle caratteristiche dei film di Meyer.

Un contemporaneo illustre che fra i tanti usa il "metodo Meyer" è sicuramente stato Andy Wharol nel suo ruolo di cineasta.
Il nome del grande artista pop e Meyer può risultare un confronto troppo lusinghiero per quest'ultimo, ma il suo ruolo nel cinema aggredisce gli schemi del racconto, li spezza e li confonde, un metodo che se non è Pop Art sicuramente ha una vena surrealista inarrivabile fra i registi americani che hanno avuto accesso al grande pubblico.
Christa Hartburg nel film Supervixen (1975)

Come per tutti i grandi geni del cinema, e non solo del cinema, i film di Meyer avevano una loro caratteristica, e non è difficile da capire: le donne con i grossi seni. Le sue attrici non scendono sotto la quinta misura di reggiseno - bisogna distinguere i seni naturali delle attrici di Meyer con quelli degli spettacoli odierni, spesso ritoccati - e questo è un punto a favore delle attrici dei film del regista americano.

Ma pure se il suo cinema è softcore non dobbiamo credere che nei suoi film si respiri aria di vizio e lussuria, i film di Meyer sono tutt'altro che erotici, il suo erotismo cade sempre nel grottesco che è la cosa più lontana dalla lussuria che si possa pensare.

Il grottesco di Meyer si basa su sceneggiature improbabili funzionali spesso per mettere in scena le sue femmine pettorute - non dobbiamo dimenticare che Meyer fu uno dei fotografi del paginone centrale della rivista Playboy - delle pin up girls con curve esagerate che paiono veramente uscite dal paginone della rivista di Heffner.
Una scena di Faster Pussycat (1965)

Ma oltre questa vena erotico-grottesca, che influenzerà non poco anche l'allievo di Warhol, Paul Morissey, Meyer con il suo film "Faster, Pussycat! Kill! Kill!" sdogana anche il genere pulp, come abbiamo detto la violenza gratuita è una delle molle narrative di alcuni suoi film. Il "Pulp" - parola inesistente nel 1965 per definire film che vanno dal grottesco all'horror, con scene di sangue esplicite - possiamo definirlo, a livello cinematografico, come un'invenzione di Russ Meyer.
Il cinema di Meyer, con le sue storie sballate, le sue attrici esagerate, e i suoi paesaggi di un'America lunare, stravolta ma profondamente americana, fanno di lui un interprete unico e il primo regista "veramente" americano come affermò di lui François Truffaut in un'intervista:

"...esiste o meno un vero autore cinematografico americano? Probabilmente ne esiste uno [...] Quell'uomo è Russ Meyer"



Ma la vera scommessa di Meyer con il pubblico americano è quella dei filone che parte da uno dei suoi film più conosciuti: "Vixen!" del 1968, di cui vediamo il trailer. Lasciato lo stile pulp a questo punto il suo marchio di fabbrica diventa quello dei cartoni animati umani. Colori accecanti, in uno scenario accecante, con storie di un'America improbabile, ma profondamente americana.

Vixen fu il prototipo per un altri due film di Meyers: "Super Vixen" del 1975 e "Benheat the Valley of the Ultra Vixen" del 1979.
Ormai nel 1979 il cinema era andato avanti e superato, in violenza e disgregazione delle trame, Russ Meyer. Ma il genio recupera attraverso la fotografia e la presenza delle sue pin up, ancora in stile anni '50, una fetta di cinema underground ancora inviolata e lontana dalle grandi majors hollywoodiane.

Senza fare paragoni impropri Russ Meyer è stato il Charles Bukowski del cinema, e se il poeta-scrittore è diventato un classico della letteratura americana, Meyer segue le sue orme e lascia un'impronta indelebile nel panorama cinematografico americano e non solo.

Se qualcuno è stato incuriosito e ha 1 ora e 23 minuti da perdere, qua sotto c'è la versione originale, completa (ma in inglese) del film "Faster, Pussycat! Kill! Kill!"



Con un'altra ora circa si può vedere anche "Motor Psycho" del 1965.





Mentre gli amanti del Russ Meyer "cartoonist" non si possono perdere "Common-Law Cabin" del 1967, che con un'oretta e poco più se la cavano.



BUON DIVERTIMENTO!

lunedì 27 febbraio 2012

Piero Marussig - Trieste nei miei pensieri


Caffè triestino
(copertina del romanzo di Cergoly)

"Trieste potrebbe essere una poesia, ma non lo è.

Trieste potrebbe essere un racconto, una lettera, soltanto un pensiero, ma non è niente di tutto questo.
Trieste è soltanto un luogo del sogno della mia mente malata.
Trieste mi vive dentro come un piccolo mostro e talvolta esplode.
Trieste è il luogo dove il mio pensiero nomade e randagio si rifugia."

(F. Morettini)



Trieste ai primi del Novecento era una città europea, forse la prima, in quella che dopo il 1918, diventerà l'Italia.
Trieste e il litorale austriaco, come ci spiega Claudio Magris nel suo libro omonimo dedicato alla città giuliana, è un luogo magico, dove l'arte e la letteratura, la pittura e la poesia si confondono con i vicoli che scendono da San Giusto al mare.
Trieste non è soltanto Svevo e Saba, non è soltanto Joyce e Slataper. Trieste è anche la città dove la pittura si fa europea.
Autoritratto, 1909

Un giorno mi comprai "Fermo là in poltrona", un romanzo minore del triestino Carolus L. Cergoly, e fui fulminato dall'immagine della copertina. C'era un quadro, per me evocativo, della Trieste che conosco a naso.
Il pittore per me era uno sconosciuto, un triestino nato alla fine dell'800 di nome: Piero Marussig.
Pur essendo uscito velocemente dall'Austria-Ungheria, e il suo litorale adriatico, Marussig portò sempre Trieste nel cuore e ne fece il soggetto dei suoi quadri più sognanti, là dove Trieste diventa un luogo della memoria.

Marussig ebbe il privilegio di visitare gran parte dell'Europa, visitò Vienna, Monaco e Parigi. Nella prima venne in contatto con il gruppo della cosiddetta "Sezession", dove assorbì gli stili più all'avanguardia dei pittori austriaci: Gustav Klimt, Egon Schiele e Oskar Kokoschka solo per citare i più famosi.

Egon Schiele, Ritratto di modella
Fra i tre giganti della pittura austriaca, Marussig, forse s'avvicina ad Egon Schiele, da cui ereditò il gusto per la provocazione e per la dissoluzione dei corpi, in particolare femminili, delle sue modelle, spesso anche amanti del pittore viennese.
Come si sa Schiele, per la sua pittura entrò in carcere come pornografo e uscì  per i buoni uffici del più celebre, e ricco, Gustav Klimt, che gli pagò la cauzione.

Marussig, per quanto ne so, non ebbe nessun problema in merito alla sua pittura che, in certi soggetti si avvicinava molto a Schiele.


Nel periodo bavarese ebbe modo di confrontarsi con pittori del calibro di Franz von Stuck e Max Liebermann. Da questa esperienza derivano molti suoi quadri, soprattutto l' "Autoritratto" del 1909 e altre opere tutte ispirategli dallo Jugendstil ormai imperante nell'arte tedesca.

Ma soprattutto a Parigi ebbe modo di confrontarsi con la grande pittura, dagli Impressionisti ai Divisionisti, da Utrillo a Van Gogh , da Gaugin a Cézanne, non tralasciando altre grosse influenze come quella di Matisse.

Piero Marussig, Donna che dorme, 1917
Da tutti questi Marussig ereditò le novità del postimpressionismo. Che, ad onor del vero, erano già presenti nelle prime tele di Umberto Boccioni, e Gino Severini, nel loro periodo pre futurista, vicini più ai divisionisti come Seurat e Signac, autori dai quali Marussig sarà pochissimo influenzato.

Qualunque confronto o paragone è quantomeno azzardato fra i giganti del post impressionismo e un pittore, come Piero Marussig, che veniva comunque dalla periferia artistica italiana che, a parte l'exploit dei Macchiaioli nel secolo precedente, non aveva prodotto ancora una pittura originale e veramente dirompente, e non la produrrà almeno fino al futurismo.

Come già detto Marussig non aderì al futurismo, anche se fu vicino al primo Boccioni, quello precedente al futurismo.


Umberto Boccioni, Ritratto del dott. Till, 1907

Anche se Boccioni, in questo ritratto sembra ancora troppo accademico, pur nella sua ricerca del nuovo, al confronto, l'autoritratto di Marussig, pur se dipinto nello stesso periodo, appare ancora più legato all'arte italiana tardo ottocentesca quasi un De Nittis  o un Medardo Rosso.

Ma Marussig riesce a rimanere saldo nel realismo quanto disposto a piegarlo al suo modulo pittorico che talvolta è forse più sperimentale dei suoi contemporanei futuristi o quantomeno il più aperto alle influenze straniere.

Il suo "Ritratto della moglie" del 1915 sente ancora forte l'influenza di Gaugin, anche se una certa vicinanza al subentrante Espressionismo non è remota.

Ritratto della moglie, 1915
Piero Marussig torna in Italia per partecipare alla Prima guerra mondiale, alla fine della guerra entra nel circolo dei pittori frequentatori del salotto di Margherita Sarfatti.
Entra quindi in contatto con il meglio della pittura moderna italiana. Incontra Carrà, Funi, Sironi e molti altri.

Dopo il 1922 Mussolini sale al potere e gli artisti del circolo della Sarfatti, che era l'amante di Mussolini, improvvisamente salgono agli onori della grande arte. Marussig diventa uno dei fondatori del movimento artistico denominatosi: "Novecento".

Ma prima della pittura del regime, vanno visti almeno i suoi paesaggi come quelli del "Caffè triestino", che costituiscono una grande fetta della sua opera.
Anche se la conoscenza dell'opera di Van Gogh è potente, a mio avviso, i paesaggi di Marussig, come buona parte della sua prima opera è figlia della sua frequentazione dei maestri viennesi, ma anche l'influenza di Matisse in questo caso diventa preponderante.

Alla fine del suo periodo "sperimentale", Marussig entra in punta di piedi nella famiglia degli Espressionisti, anche se nessuno se ne accorge, né se ne accorgerà in futuro.

Piero Marussig, Donna con l'ombrello
Questo quadro "Donna con l'ombrello" dimostra ampiamente la vicinanza tra Marussig, prima epoca, Franz Marc e altri espressionisti tedeschi in particolare August Macke.

Dopo questo periodo d'oro, con l'affermazione del fascismo, l'arte in Italia si appiattisce su una nuova arte di regime, vicina al classicismo, una falsa arte romaneggiante imperiale.
Marussig si adegua ma non si sottomette, come del resto tutto il gruppo di "Novecento".
Alcuni come Carrà e Sironi si avvicinarono alla Metafisica, altri come il veneziano Dudreville ritornano all'iperrealismo.

Piero Marussig affronta l'arte fascista muovendosi tra le due correnti, la sua arte è iperrealista ma al tempo stesso con echi metafisici non indifferenti come nel caso del suo "Autunno" del 1924.
Questa opera è forse la sua più rappresentativa del periodo degli anni '20, gli echi della pittura di Sironi sono evidenti.

I personaggi però richiamano una nuova visione, anzi quasi una nuova primavera della pittura italiana del Quattrocento nella quale Marussig trova spunto per rivelarsi metafisico, come si può notare dai personaggi rappresentati in questa tela.
Autunno, 1924
La ragazza accanto alla figura allegorica dell'autunno come non può non ricordare il personaggio di un dipinto di Piero della Francesca?

Però Marussig non è mai stato un vero pittore di allegorie, quindi il suo apporto all'arte fascista non è stato molto importante, come per altri pittori, ma soprattutto scultori suoi contemporanei.

Piero Marussig è invece il pittore della borghesia italiana. Il pittore triestino preferisce scene intime, guarda i suoi personaggi con commozione e partecipazione, al contrario degli espressionisti tedeschi che presentano una società in sfacelo com'era quella della Germania di Weimar come si vede nei quadri e i disegni impietosi di Georg Grosz.

La borghesia di Marussig è parte di una società provinciale, ricordano molto i personaggi di certe opere letterarie del periodo.
Sembrano i borghesi del teatro pirandelliano, forse di più quelli de "La noia" di Moravia.

Il gusto per le scene d'interno, i ritratti di bambini e di modelle sono una firma del Marussig che aderisce comunque alla nuova sensibilità del regime, ma non dipinse mai niente di epico o propagandistico, forse i suoi ritratti di donna, degli anni '20 come questo che vediamo, non sono immuni da una certa influenza di quelli che contemporaneamente dipingeva Tamara de Lempicka, anche se  in questo ritratto si ritrovano gli incarnati del ritratto della moglie di un decennio precedente.
Marussig, Ritratto di donna, 1927

Durante i suoi ultimi anni, Marussig perde il gusto per le scenette "open air" come quelle di prima del fascismo, quelle del Marussig aperto a qualunque esperienza internazionale. Il Marussig postimpressionista, quello proto espressionista  della ragazza con l'ombrello della fine degli anni '10 era scomparso dietro la cortina di un regime oscurantista e autarchico.
Un clima che non dà molto spazio ad artisti come Piero Marussig il quale interrompe la sua interessante parabola sperimentalista

Piero Marussig morirà in pieno regime fascista nel 1937.
In seguito sarà per lo più ignorato dalla grande critica che preferì incensare altri artisti come Carrà, De Chirico, Marini e Sironi.
Ma molti di questi sono debitori dello svecchiamento e apertura ad un clima internazionale dell'arte italiana iniziata proprio con Piero Marussig.


giovedì 23 febbraio 2012

"Quadro de una dona aretrata dicto la Joconda"

Monna Lisa a sin. (Museo del Louvre) - Monna Lisa a des. (Museo del Prado)
Il restauro della copia della "Monna Lisa" del Museo madrileno del Prado, ci ha fatto una bella sorpresa, questa sorpresa è la scoperta di un paesaggio, là dove c'era una cortina oscura, che probabilmente è un'aggiunta settecentesca. Ma il paesaggio "ritrovato" dietro la scura cortina ha molte differenze con quello dell'originale del Louvre.

Monna Lisa del Prado
(prima della ripulitura)
I restauratori, dopo un esame agli infrarossi, hanno fatto comparire una veduta di una valle circondata da montagne aguzze, quasi come un anfiteatro naturale che circonda la figura della gentildonna fiorentina. Confrontato con quello della Gioconda francese, che pure riproduce un paesaggio simile a quella del Prado, lo stile appare diverso. Lo stesso volto di Monna Lisa è diverso nelle due versioni. Il celebre enigmatico sorriso leonardesco viene sostituito con un volto più sorridente, più rilassato, quasi che il soggetto abbia perso la sua ambiguità.

La scoperta di questa versione non è una cosa nuova, già da secoli questa Monna Lisa era conosciuta, ma attribuita ad uno sconosciuto pittore che aveva fatto una versione propria del capolavoro leonardesco.

Questa ipotesi è caduta dopo la rimozione dello sfondo scuro della tela madrilena: lo stile proviene dalla cerchia di Leonardo, il quadro è stato dipinto quasi in contemporanea con quello acquistato dal re di Francia. Quindi si tratta di una copia di bottega. Ma chi fu che contemporaneamente al lavoro leonardesco produsse questa versione? Ovviamente un seguace di Leonardo che l'accompagnava durante il suo lavoro.

La Gioconda del Prado, mostra dopo il restauro, una grande vicinanza a soggetti dipinti dallo stesso Leonardo  e dalla sua bottega.
Proprio a causa del paesaggio, così originale e pieno di luce, rispetto alla Gioconda che conosciamo, ritratta durante il crepuscolo, quindi con un paesaggio sfuggente nei suoi reali contorni, la proposta attributiva si sposta dal pittore toscano ai suoi allievi lombardi più vicini al maestro.

Il primo nome che è stato proposto è quello di Gian Giacomo Caprotti detto il Salai, il suo allievo più fedele e, come vuole una leggenda, anche il suo amante.
Salai, Monna Vanna
La cosa, di per se è convincente, soprattutto per la vicinanza dei volti e lo sfondo particolare, come abbiamo detto, presente in molti quadri dell'allievo-amante di Leonardo, in particolare quello del "San Giovanni Battista" e soprattutto quello della cosiddetta "Monna Vanna".

Il quadro intitolato "Monna Vanna" è praticamente una versione nuda della "Monna Lisa" (più che completamente nuda oggi diremmo: in topless).
Nel testamento del Salai è, probabilmente, quello citato come:
"qvadro cvm vna meza nuda"

(Arch. di stato di Milano)

Nello stesso documento si fa riferimento al suo possesso nel 1524, al momento della morte di un:

"qvadro de vna dona aretrata dicto la Joconda" 

E qui ci dovremmo chiedere a quale Gioconda si fa riferimento nell'Atto Notarile.

Ma tornando al paesaggio, siamo sicuri che questo tipo di paesaggio compare solo negli allievi di Leonardo?
Oltre il Salai è stata proposta anche la mano del suo primo allievo, ed erede delle opere manoscritte del maestro dopo la morte: Francesco Melzi. Ma, come dicevamo, è possibile che il paesaggio della Gioconda del Prado non sia presente in opere considerate di mano del maestro fiorentino?

Ovviamente la risposta è no. In effetti la stessa tipologia di paesaggio è presente in più di un quadro considerati di mano leonardesca. Un esempio fra gli altri è la "Vergine con Sant'Anna" e  "La Madonna dei fusi", della versione oggi presente in una collezione privata di New York.

Il paesaggio con monti aguzzi, appena accennato nella Gioconda del Louvre, molto più nitido nel quadro della Monna Vanna del Salai, ma sempre avvolto in una caligine che evidentemente ricorda i cieli e i paesaggi della Lombardia, non raggiungono la somiglianza fra la copia del Prado e la Madonna dei fusi di New York.

Madonna dei fusi, New York
I casi sono due: o Leonardo usava vari tipi di ambientazioni paesaggistiche o anche la Madonna di New York è un prodotto di bottega magari dipinta dallo stesso Salai.

Ma confrontando Monna Vanna con la Madonna dei fusi si nota, in quest'ultima, una mano diversa, specialmente nei volti, da quella del Salai.
Lo stesso paesaggio risulta diverso, nella Madonna dei fusi, come nella Gioconda del Prado, dal personaggio ritratto si dipartono tutta una serie di stradelle che scendono a valle e traversano un fiume attraverso un ponte. La stessa che si trova anche nella Gioconda del Louvre, ma non nella Monna Vanna. Oggi si tende a paragonare questo paesaggio con quello del basso Valdarno, nei pressi di Vinci. e i suoi calanchi.

Se accettiamo la mano autografa di Leonardo della Madonna dei fusi dovremmo anche pensarla per la Gioconda del Prado.

Il problema non è facilmente risolvibile, anche se dall'Hermitage ci giunge in soccorso una copia della Gioconda non molto conosciuta. Da sempre attribuita a "Scuola Lombarda del XVI secolo" questa terza Monna Lisa sembra quasi, a livello di paesaggio, un tramite tra la Madonna dei fusi, la Gioconda del Prado e quella del Louvre.
Monna Lisa dell'Hermitage
Come si può notare il sorriso della Gioconda dell'Hermitage perde l'ambiguità di quella leonardesca avvicinandosi di più a quella del Prado. Anche se segue in maniera pedissequa la versione del Louvre, un paesaggio crepuscolare, il ponte che traversa il fiume giù nella valle, accenna in maniera molto più nitida di quella del Louvre, il paesaggio montagnoso che ritroviamo nella Madonna dei fusi e nella versione del Prado di Monna Lisa.

Un altro quadro leonardesco che riproduce un paesaggio simile alla Gioconda del Prado è la "Vergine delle rocce", quella della versione conservata alla National Gallery di Londra.

A proposito di questa versione del, possiamo dire, il secondo quadro più famoso di Leonardo (secondo alla Gioconda del Louvre ovviamente), ho avuto già il piacere di valutarlo e confrontarlo con quello, decisamente più celebre e a mio avviso più bello, che si trova al Louvre. Nel caso specifico della Madonna londinese, avevo proposto una diversa lettura di questo capolavoro ritenendolo anche questo un lavoro di bottega (nonostante ormai tutti, o quasi, siano convinti che si tratti di un autografo del maestro). Ho provato anche a fare un'attribuzione, per niente convincente anche secondo me, al Gianpietrino. anche se la possibilità che sia il De Predis non è per niente remota. Ma diciamo che confrontandolo con l'originale del Louvre, le differenze saltano all'occhio.
Vergine delle rocce, National Gallery (part.)

Anche in questo caso la luce "lunare" della versione della Vergine delle rocce di Londra ricorda forse più la Gioconda del Prado o la Madonna dei fusi di New York che non il suo omologo conservato al Louvre, come si può notare da questo particolare del paesaggio.

Ma ritorniamo ai Leonardeschi, perché abbastanza chiaro che nel caso della Monna Lisa del Prado si deve cercare fra i suoi allievi.
Del Salai abbiamo già parlato. Stando alle dichiarazioni degli esperti del Prado è proprio lui, il Salai, che nel primo decennio del XVI secolo, dipinge una copia del quadro più famoso del mondo.
Gianpietrino, Santa Maria Maddalena
Differenziandosi in alcuni particolari, non indifferenti, dall'originale del maestro, forse per "firmare" la propria versione. Ma altri leonardeschi possono avere la palma di autori della Gioconda del Prado.
Purtroppo fra i vari leonardeschi si fa spesso confusione, le similitudini sono incredibili fra Francesco Melzi, Cesare da Sesto, il Gianpietrino (del quale possiamo vedere questa notevole Maria Maddalena con la solita scenografia di monti aguzzi), Bernardino Luini, Filippo Napoletano etc.

Una scorciatoia potrebbe essere la cronologia. Non tutti gli allievi di Leonardo erano presenti quando Leonardo aveva dipinto la Gioconda, ma d'altra parte non è detto che la copia del Prado non possa essere posteriore, anche di qualche decennio dal capolavoro di Leonardo.

Quindi il mistero rimane, fino a che qualcuno non porrà fine a questa querelle. Il Salai è un'ottima attribuzione, la sua Monna Vanna dimostra una notevole somiglianza formale alla Gioconda del Prado.
Bernardino Luini, Marta e Maria

Ma provate a confrontare il volto di questa Maria di Bernardino Luini con quella della "Monna Lisa" del Prado. La somiglianza è notevole. Bernardino Luini è un pittore d'area leonardesca, non un allievo diretto di Leonardo come il Melzi o il Salai, chissà se avrà mai avuto modo di conoscere la vera Gioconda prima del trasferimento a Fountainebleau? Di certo quando Leonardo morì, nel 1519, il Luini era già un pittore attivo a Milano e molto conosciuto. Poi, come abbiamo visto, nel 1524 alla morte del Salai, l'inventario dei suoi beni comprende una Gioconda, ma non è specificato se è opera di Leonardo o dello stesso Salai. D'altra parte lo stesso volto di Maria del Luini ha un'impressionante somiglianza anche con la copia della Gioconda dell'Hermitage, tutt'ora attribuito ad anonimo di scuola lombarda del XVI secolo.
Monna Lisa, Hermitage

Il ritrovamento e il restauro della Monna Lisa del Prado, nonché la sua incerta attribuzione al Salai, darebbe una nuova luce all'inventario del pittore-amante di Leonardo da Vinci. Ma nell'incertezza non possiamo escludere che il Luini abbia visto, e magari copiato, la Gioconda che il Salai aveva in casa.